Letteratura inglese

William Thackeray e La Fiera delle Vanità

La Fiera della Vanità di William Makepeace Thackeray

UN ROMANZO SENZA EROE

Vita e opere di William Makepeace Thackeray

Lontana da ogni affettazione romantica e dai lirismi eroici di Byron, l’opera letteraria di
William Makepeace Thackeray (1811-1863) è un’obiettiva, impietosa osservazione della reale
società vittoriana, della quale rivela le ipocrisie, le vanità, lo snobismo, l’egoismo dilagante che si
nascondevano dietro le allettanti maschere delle persone socialmente importanti.
Nato a Calcutta il 18 luglio 1811, William Makepeace Thackeray era figlio di un ricco funzionario dell’East India
Company, alla quale aveva dato la sua opera anche il nonno.
Il padre morì nel 1815 e il bambino fu mandato in Inghilterra nel 1816 per compiervi i suoi studi: egli non tornò più in India, che restò per lui un vago ricordo.
In compenso, simile a un episodio di romanzo, rimase impressa nella sua memoria la vicenda della madre.
Da ragazza, essa si era innamorata di un giovane ufficiale, il capitano Carmichael-Smyth, ma i genitori, per mezzo di una serie di menzogne, avevano posto fine all’idillio.
Mandata a Calcutta, dove aveva sposato Richmond Thackeray, essa incontrò CarmichaelSmyth, che credeva morto, a casa propria, a cena, invitato dall’ignaro marito.
La passione rinacque in entrambi e, diciotto mesi dopo la morte del marito, essa sposò l’ufficiale.
Per William questa esperienza valse sia sul piano esistenziale che su quello letterario, ove si pensi che uno dei principali bersagli satirico-onirici dei suoi romanzi fu proprio il motivo del matrimonio di convenienza e dei mariti imposti dai genitori alle figlie.
William Makepeace ThackerayThackeray non fu uno studente brillante e non si laureò mai, pur avendo studiato a Londra e a Cambridge.
Il padre gli aveva lasciato parecchio denaro, il che gli consentì di recarsi a Parigi a studiare arte.
A Parigi, dopo brevi viaggi in Germania, s’innamorò di una ragazza anglo-irlandese, Isabelle Shawe, e poté sposarla giacché era stato nel frattempo nominato corrispondente di un giornale inglese finanziato dal patrigno.
Ma il giornale fallì e i Thackeray si trasferirono a Londra, andando a vivere nel quartiere di Bloomsbury.
La coppia ebbe tre figlie, di cui una morì ancora infante; la terza, Harriet, sposò Leslie Stephen, filosofo, critico letterario influente, e fu dunque madre di Virginia Stephen, Virginia Woolf una volta assunto anche in arte il nome del marito.
Isabelle subì gravi e fatali crisi nervose che la portarono virtualmente alla pazzia e passò il resto dei suoi anni – sopravvisse a William – in campagna, assistita da un’infermiera.
Thackeray iniziò a Londra una carriera di giornalista letterario, collaborando attivamente al Fraser’s Magazine, per il quale scrisse tra l’altro, a puntate, la Yellowplush Correspondence , o Papers, tra il 1837 e il 1838, una serie di schizzi satirici di ambiente, descritti appunto da un immaginario domestico di nome Yellowplush, e Catherine, tra il 1839 e il 1840, un romanzo di vita criminale che mascherava trasparentemente nella sua truculenza una parodia della narrativa dei bassifondi che tendeva a conferire una vernice positiva al delitto.
Precisamente sul Fraser’s Magazine Thackeray pubblicò a puntate, con il consueto espediente di presentarsi come il curatore dell’opera, tale FitzBoodle, nel 1844, The Lucky of Barry Lyndon, a Romance of the Last Century (La fortuna di Barry Lyndon, un Romance – cioè storia avventurosa e amorosa – del secolo scorso).
Nel 1842 Thackeray, che era un disegnatore e vignettista spesso raffinato e mordace, iniziò la collaborazione a Punch, il più famoso periodico umoristico inglese, che dava largo spazio alla narrativa in genere.
Sul Punch, per il quale lavorò fino al 1854, Thackeray pubblicò a puntate The Book of Snobs (Il libro degli snob), originariamente, nel 1848, The Snobs of England, serie di variazioni satiriche e ironiche su quell’affettazione e pretenziosità che dovevano poi assumere persino in altre lingue, come l’italiano, il termine di snobismo. Contemporaneamente, in fascicoli mensili, iniziava la pubblicazione, terminata nel 1848, del maggior romanzo di Thackeray, Vanity Fair (La fiera della vanità), uno dei vertici della letteratura vittoriana.
Ormai celebre, Thackeray si acquistò una splendida casa a Kensington e divenne una delle personalità più note nel bel mondo e nell’ambiente letterario londinese.
Nel 1848 iniziò la pubblicazione a puntate, conclusa nel 1850, di un altro romanzo, The History of Pendennis, incentrato sulle vicende di un gentiluomo inglese e che comporta un nuovo quadro complessivo.
Il romanzo consacrò la popolarità di Thackeray, mentre  The History of Henry Esmond, Esquire, del 1852, un raffinato romanzo storico ambientato nel Settecento della regina Anna, fu accolto più tiepidamente.
Seguirono ancora The Newcomes (I nuovi venuti, o Gli arrivati, conosciuto anche col titolo La famiglia Newcome), uscito a puntate tra il 1853 e il 1855, un romanzo che prosegue Pendennis e si sviluppa esso pure come una serie di grandi schizzi di ambiente, e The Virginians (I virginiani), pubblicato tra il 1857 e il 1859, che narra le vicende dei discendenti di Esmond, trasferitisi nella colonia americana.
Il grande successo di Pendennis anche negli Stati Uniti indusse forse Thackeray a trasferire l’azione oltreoceano.
La popolarità di Thackeray narratore cominciò a declinare, ma in ogni caso la sua fama si consolidò attraverso la saggistica, in particolare con un vero classico del genere, The English Humourists of the Eighteenth Century (Gli umoristi inglesi del secolo decimottavo), pubblicato nel 1853 e che raccoglieva una serie di brillanti conferenze tenute in Inghilterra e negli Stati Uniti.
Thackeray, che nel 1857 si era invano candidato al parlamento nel collegio di Oxford e nel 1860 aveva assunto la direzione della rivista Cornhill’s Magazine, appena fondata e destinata a una rapida e prestigiosa affermazione, morì improvvisamente per attacco cardiaco il 24 dicembre 1863.
Thackeray fu sepolto a Londra al Kensal Green Cemetery. Al suo funerale parteciparono diverse migliaia di persone a testimonianza del successo raggiunto.
Nell’abbazia di Westminster si trova un busto in marmo che lo raffigura.
Del Thackeray hanno scritto in maniera precisa, pungente e scultorea Walter Bagehot:
<<Thackeray aveva una natura troppo sana e stabile per essere risospinto fuori del suo equilibrio;
ma la visione della vita del cameriere non era mai assente dalla sua mente>>, Gilbert Keith
Chesterton: <<Si può dire, in un epilogo approssimato, che Thackeray è il romanziere della
memoria, della nostra non meno che della sua. Dickens sembra aspettare tutti i suoi personaggi,
come estranei divertenti che vengono a colazione.
Ma Thackeray è il passato di ognuno; è la giovinezza di ognuno>>, David Cecil: <<Gli oggetti del tempo, a dire il vero, occasionano alcuni dei più caratteristici successi di Thackeray. Aveva una sensibilità particolare per gli apporti del
passato; quali emblemi più acuti esistono della transitorietà e della vanità dell’uomo?>>.

La Fiera della Vanità

Unanimemente considerato il capolavoro indiscusso di Thacheray, Vanity Fair, tradotto in
italiano con La Fiera della Vanità o La Fiera delle Vanità (ma una traduzione più efficace potrebbe
essere Fiera di Vanità), concepito e iniziato tra la fine del 1844 e l’inizio del 1845, fu pubblicato in
fascicoli mensili dal gennaio 1847 al luglio 1848 con illustrazioni dell’autore, e in volume nel 1848.
Nel romanzo si svolgono due intrecci diversi, appena uniti tra loro da deboli legami.
Uno di essi narra la vita e le avventure di una donna coraggiosa, di rara intelligenza e di pochi scrupoli,
Rebecca (Becky) Sharp.
Vanity Fair, la fiera delle VanitàL’altro intreccio riguarda invece una compagna di scuola di questa, Amelia Sedley.
Lasciato il collegio, Becky viene a passare qualche settimana in casa Sedley, dove cerca di irretire Jos, il fratello di Amelia. Becky è povera, deve guadagnarsi la vita da sé, e ama sopra ogni cosa il denaro e il potere che esso offre; perciò, sebbene Jos sia un essere spregevole, ubriacone e vigliacco, ella fa il possibile per conquistarlo, e ci riuscirebbe se il fidanzato di Amelia, George Osborne, non intervenisse all’ultimo momento per impedire a Jos di fare la sua brava dichiarazione.
Becky entra allora come governante in casa di Sir Pitt Crawley, dove riesce a farsi amare da tutti, anche da Miss Crawley, la ricchissima sorella di Sir Pitt, e dal barone stesso, che, alla morte di Lady Crawley, le propone di sposarlo.
Ma purtroppo ella ha già sposato segretamente Rawdon Crawley, secondogenito di Sir Pitt e nipote preferito di Miss Crawley.
Alla notizia del matrimonio, però, la zia disereda il nipote e Becky ricomincia a lottare per procurarsi ad ogni costo del denaro.
Tutti i mezzi sono buoni per raggiungere il suo scopo. Ella passa così di avventura in avventura, di intrigo in intrigo, riuscendo sempre a cavarsela nei peggiori pasticci.
Amelia Sedley invece è l’opposto di Becky: sincera, semplice, onesta e un po’ sciocca.
Ella ama con tutto il cuore il suo fidanzato George, giovane egoista e leggero, che, quando il padre di Amelia perde tutte le sue ricchezze, è sul punto di rompere il fidanzamento.
Un suo collega, il capitano Dobbin, uno sfortunato ammiratore di Amelia, gli impedisce di compiere questa cattiva azione, e il matrimonio avviene ugualmente malgrado l’opposizione del vecchio Osborne.
George viene ucciso durante la battaglia di Waterloo (18 giugno 1815) e Amelia, disperata per la sua morte, vive per lunghi anni nella più squallida miseria, respingendo la corte del devoto Dobbin per restare fedele al ricordo del marito.
Solo quando viene a sapere da Becky che George non meritava tanta appassionata devozione, si decide finalmente, dopo quindici anni di vedovanza, a sposare il suo fedele ammiratore, ora divenuto colonnello Dobbin.

Quando, nel 1846, si accingeva a pubblicare questo romanzo, Thackeray aveva raggiunto una modesta notorietà nel mondo letterario, ma la sua posizione si consolidò con La Fiera della Vanità, che, sebbene inizialmente accolta dal pubblico con una certa freddezza, consacrò la fama dell’autore.
Il romanzo ha un sottotitolo, A Novel Without A Hero, romanzo senza un eroe o protagonista, e si può veramente dire che la rivoluzione portata da Thackeray nel mondo letterario con tutta la sua opera, e in particolar modo con questo romanzo, si riassume in questa frase.
Non più il mondo fittizio e ricercato del romanzo a tesi – prevalente nel primo periodo dell’epoca vittoriana – nel quale il protagonista ha tutte le virtù o tutti i vizi, la bontà è ricompensata e il male punito, ma la cruda realtà della vita: il
buon senso della natura umana in luogo di uno sciocco sentimentalismo e degli inutili pregiudizi:
non manichini e marionette azionati da un invisibile demiurgo buonista, ma uomini in carne e ossa in preda del loro stesso destino, che lottano l’un l’altro per conquistarsi una posizione sociale.
È questo, in sostanza, il messaggio lanciato da Thackeray con quest’opera in cui si afferma in modo deciso la sua genialità. Il racconto, che ha tutta l’ampiezza di un affresco, presenta e caratterizza le più diverse classi sociali; la fredda critica degli uomini non ha attenuato la vividezza e la varietà dei ritratti offerti dai molti personaggi.
Su tutti domina la forte figura di Becky Sharp: in lei il realismo di Thackeray raggiunge una forza e una verità che egli non superò più in seguito.
Intorno a Becky è uno stuolo d’indimenticabili figure, tutte ugualmente vivide perché tutte, siano buone o cattive, profondamente umane.
L’opera non va però esente da quelli che furono i difetti caratteristici di tutta l’arte di Thackeray: nel suo insieme la storia manca di coesione per l’eccessiva lunghezza e complicazione del racconto.
Vanity Fair rimane, in ogni modo, un’opera di capitale importanza nello sviluppo del romanzo inglese del XIX secolo. Numerose sono le traduzioni italiane, tra le quali quelle di G. B. Martelli (Roma, 1882), A. Banti (Milano, 1948), M. Ricci Miglietta (Milano, 1996) e L. Melosi (Milano 2004).
Tra tutte le riduzioni cinematografiche dell’opera, merita una speciale menzione il film del 2004, diretto dalla regista Mira Nair, in cui alla sontuosa ricostruzione degli ambienti si unisce la brillante, impeccabile recitazione degli attori, e, in primis, quella dell’americana Reese Witherspoon nel ruolo dell’anti-eroina del romanzo, Becky Sharp.

Gaetano Algozino            Leonforte (Enna),  7 agosto 2020

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