Letteratura inglese

Oscar Wilde e il Ritratto di Dorian Gray

Oscar Wilde. La foga e l’energia di un gaelico che aggredì la vita.

 A lungo, per tradizione e direi per convenzione, si è pensato a Oscar Wilde come a un corruttore corrotto, e anche a un “dandy” smidollato  che chiedesse coraggio all’alcol, e soprattutto a un istrione geniale ma inverecondo.
In realtà, per capire Wilde, è fondamentale rammentarsi quanto fosse irlandese: la foga, l’energia e a volte la violenza con la quale aggredì la vita erano molto gaeliche.
L’energia vitale, talora mascherata di indolenza, è manifesta in Wilde fin dagli anni della prima formazione scolastica. Sebbene i suoi genitori godessero di una situazione rispettabile e agiata (la madre, Jane Algee, era nota come poetessa patriottica e il padre, sir William, ebbe fama di medico oculista eccellente), Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde non sarebbe stato accettato a Oxford se, frequentando il Trinity College a Dublino dove era nato il 16 ottobre 1854, non avesse vinto una borsa di studio per la più celebre delle università inglesi.
Raggiunse Oxford a vent’anni; era il più anziano del corso, i compagni che avevano cominciato a deriderlo dovettero imparare presto a temerlo o ad amarlo. Nessuna pareggiava la sua capacità di grecista, la sua conversazione era la più brillante, i giovani aristocratici destavano in lui un misto di ironia e di fascino, i suoi pugni all’occorrenza erano pesanti. L’esteta germoglia qui a Oxford, meno fatuo che fermo: John Ruskin e Walter Pater sono i suoi maestri.

La tentazione cattolica (lui è anglicano) comincia a dilettarlo ma non a scalfirlo; viaggia a Roma e in Grecia; scrive versi, il suo poemetto Ravenna (1878) è byroniano e manierato ma gli vale il prestigioso premio Newdigate.
A Londra – dove si stabilisce con il coetaneo pittore Frank Miles in Salisbury Street – Wilde sale presto alla ribalta: è mondano, “eccentrico”, difende i valori della Bellezza e dell’Individualismo, lotta contro la schiavitù delle convenzioni, pubblica poesie raffinatamente prive di originalità, si volge ammirato a Swinburne e al decadentismo parigino, propugna il primo Liberty, veste da menestrello, l’operetta Patience di Gilbert e Sullivan lo mette in ridicolo con gli altri “esteti” e lui segue la tournée di Patience negli Stati Uniti per un giro di conferenze: vorrebbero farlo passare da macchietta, Wilde fronteggia signorilmente, con umorismo e con flemma, quelle strane platee.

Dal 1883, per dieci o dodici anni fuggevolmente felici, Oscar Wilde costruisce con pazienza e con insolenza la propria vita come un capolavoro: «La vita è in se stessa un’arte e ha i suoi modi di espressione al pari delle arti che vogliono darne l’immagine». Bisogna scrivere, certo, ma contemporaneamente agire.
Il matrimonio, contro il quale Wilde eserciterà in seguito il sarcasmo più acre, è opportuno purché la sposa sia bella, gentile, notevolmente ricca – Florence Belcombe, di cui Oscar fu invaghito a Dublino, era bellissima ma poverissima – , l’eletta si chiama Constance Lloyd, gli darà due figli, gli premorrà costernata.
Per qualche tempo è accanto a lui, un po’ nell’ombra. In quello che Borges definisce «lo stanco crepuscolo del secolo XIX in un’oppressiva pompa di serra o di ballo mascherato», Oscar Wilde figura tra i protagonisti, a Londra come a Parigi; la protezione di Lord Ronald Gower gli ha schiuso il gran mondo che era stato di Disraeli.
Non meno di Disraeli, e con più senso di humour, Wilde si pone verso l’aristocrazia come incantatore, e altresì come fustigatore brioso, mai astioso. I suoi paradossi ed epigrammi, che gli sopravvivono, diventano quasi leggendari; i week-end in campagna, istituzione inglese al culmine della fortuna, avrebbero un prestigio minore se Wilde non li accendesse con lo scintillio delle sue iperboli in una sapiente dosatura di beffa.
La caccia alla volpe è sacra per il bel mondo britannico, «l’infrequentabile all’inseguimento dell’immaginabile» la deride Wilde: c’è in lui – questo non possiamo nascondercelo – qualcosa di clownesco e snobistico, riscattato parzialmente da un’intrepida, aggressiva freschezza.
«Ho messo il genio nella vita e solo il talento nelle opere», ha detto Wilde. Non penso che si sia reso giustizia; «bisogna combinare i suoi scritti, i ricordi della sua conversazione e gli avvenimenti della sua vita per apprezzare adeguatamente Wilde e per accorgersi che pur non potendosi definire precisamente uno scrittore di prim’ordine egli ha offerto per così dire uno spettacolo di prim’ordine», ha notato Edmund Wilson non senza qualche cinismo.
Che le conversazioni purtroppo non registrate né registrabili di Oscar Wilde formino il suo autentico capolavoro quasi tutto perduto, ecco un luogo comune da confutare. Un’altra banalità da respingere è la pigrizia di Wilde: questo “pigro”, affascinante conversatore ha elargito tra il 1892 e il 1895 quattro commedie (Il ventaglio di Lady Windermere, Una donna senza importanza, L’importanza di chiamarsi Ernesto, Un marito ideale) dove molte doti si addensano, dalla grazia settecentesca alla sorridente ma stringente contestazione dell’ipocrisia sociale, per rifulgere nella macchina scenica perfetta in sé, amabilmente, serenamente riproponibile ai giorni nostri e fra un secolo e a posteri più lontani, giacché uno dei vertici dell’arte teatrale di ogni epoca è stato raggiunto con facilità apparente nello stile più terso e semplice, quasi sotto tono, in un segno di eleganza e purezza.

Oscar WildeIl miglior Wilde, a parte le commedie, emerge con garbo di artificio in certi racconti (Il delitto di Lord Arthur Savile, Il fantasma di Canterville, entrambi del 1891), nella tenerezza di alcune fiabe come quella dell’usignolo che si trafigge a uno spino per tingere di rosso la rosa invocata da una bella volubile, nella “inquisizione” erudita e poetica del Ritratto di Mr. W. H. (1889), infine nei saggi provocatori di Intenzioni (1891), dove la teoria wildiana del critico come artista prende campo. Parlare di una cosa è più difficile che farla; chi può incarnare in una forma nuova o in una materia diversa le proprie sensazioni della bellezza è un critico; tanto la suprema quanto l’infima forma di critica sono una specie di autobiografia. «Ma per critico», osserva Masolino D’Amico, «Wilde intende in realtà colui che muove dall’arte (e non dalla vita, con i compromessi che questa richiede) onde creare con i suoi materiali purificati un’immagine e un esempio di bellezza e di libertà individuale. Qualifica alla quale egli indubbiamente aspirò e che non ci sembra di potergli ulteriormente negare».

C’è il critico Wilde e poi, lo sappiamo, c’è il Wilde demone. Questi cresce a poco a poco, non sospettato dalla maggior parte dei suoi amici, tanto ragionevole appare l’estro di lui e così rispettabile la sua baldanza di Arbitro del gusto londinese, spregiudicatamente ma opportunamente antitetica all’ipocrisia di un perbenismo invecchiato.
Si paragona la sua casa di Tite Street, Chelsea – decorata dall’architetto di moda E. W. Godwin – a un faro e a una torre di avorio; Connie, la sposa dagli occhi color violetto, e i due figli bambini sollecitano appellativi di squisitezza o di invidia. Seduto al tavolo che appartenne a Carlyle, di fronte a un calco di Prassitele, l’arbitro stende con quieta letizia le pagine che splenderanno nella Pall Mall Gazette o nella Dramatic Review, o nella rivista femminile di cui Wilde ha graziosamente assunto la direzione rinnovandone il titolo in The Woman’s World. Un altro periodico, la Fortnightly Review, accoglie le rasserenanti e non sempre bizzarre argomentazioni utopistiche di L’anima dell’uomo sotto il socialismo: «Tutte le forme di governo sono errate, il dispotismo è ingiusto per tutti, il despota incluso, scompariranno autorità e repressione, non ci saranno crimini perché mancheranno il bisogno e la gelosia; la personalità dell’uomo, un mistero, sarà meravigliosa come quella di un bimbo nel regno dell’individualismo socialista». È abbastanza curioso che in Russia, prima della rivoluzione, Wilde fosse considerato un rivoluzionario a causa di questo gradevole ma innocuo pamphlet pseudocomunista: la potenza delle sigle ideologiche si smentisce di rado. Sta di fatto che la Russia zarista fu, nel primo quindicennio del secolo, la nazione europea nella quale la memoria di Oscar Wilde non venisse vituperata; il primo film ispirato a un’opera di Wilde è russo: Portrèt Dorjana Greja di Vsevolod Emilevič Mejerchold, nell’anno 1915.

Virtuoso a suo modo a Londra, Wilde lo fu probabilmente assai meno a Parigi dove soggiornava con frequenza: la vernice decadentistica come cartapesta dorata si sovrappose alla sua fondamentale schiettezza celtica non appannata dallo snobismo: Mallarmé, Verlaine, Huysmans, Villiers de l’Isle-Adam, Loti, Maeterlinck, Barrès, Schwob, l’ambiguo Bourget, più anziani o più giovani di Wilde, furono per lui cattivi modelli. Pittori sontuosi e morbosi, Moreau primo fra tutti, lo stregarono. Sarah Bernhardt, lascivamente asessuata e idolo abbacinante, ha un suo peso nella degradazione di Wilde non fosse che in senso estetico. Salomé, dramma in un atto scritto in prosa francese e allestito a Parigi, presupponeva l’interpretazione della Bernhardt (Wilde lo compose per lei fin dal 1892); pare a stento credibile che l’autore di questa attossicata finzione e l’autore dell’Importanza di chiamarsi Ernesto, degno di Marivaux o di Sheridan, fossero una sola persona. Anche La Sfinge, poema insopportabilmente decorativo, giace sotto l’influsso “bizantino”, lontanamente mutuato dalla Tentazione di Sant’Antonio di Flaubert ed esiziale al nitore di Wilde. In complesso le opere “inglesi” di Wilde sono vivide, stimolanti, a loro modo “classiche”, tranne La duchessa di Padova (1891) che alterna versi e prosa alla maniera di Shakespeare esplorando con paludato accademismo gli abissi elisabettiani. Questa duchessa fu un fiasco, l’unica stecca nella drammaturgia londinese del poeta.
Dorian Gray risale allo stesso periodo; considerato nella biografia wildiana il romanzo “maledetto”, segna la svolta della perdizione.

Accadde infatti che, creato l’abominevole ammaliante personaggio del giovane la cui bellezza è magicamente durevole sino all’incantesimo che la uccide, Wilde incontrasse nella vita reale un Dorian Gray non più dipinto ma carnalmente concreto, lussuriosamente rapace, Lord Alfred Douglas “tutto bianco e oro”, più giovane di Oscar di quindici anni, studente a Oxford e alunno arrogante delle muse, rampollo di una famiglia – quasi una dinastia – che discendeva dal clan dei Macbeth. Fu, piuttosto che un amore socratico, l’incontro fra due viziosi: l’esaltazione omosessuale, fino allora contenuta o repressa, deflagrò in Wilde; si fecero vermiglie per lui le tinte del mondo; lo scandalo venne cercato, ostentato in misura dilagante. Troppo e troppo crudelmente si è insistito su questo scandalo, al quale ormai dobbiamo accostarci con misericordia se non più con riserbo. Gli dei avevano accecato Oscar Wilde, per usare il suo linguaggio classicheggiante: il marchese di Queensberry, padre di Alfred Douglas, offese (non infondatamente) Wilde e Wilde, spalleggiato dal giovane Douglas, denunciò Queensberry per diffamazione. George Bernard Shaw dice che «quando fece questo, febbraio 1895, l’inizio della fine, Oscar Wilde era completamente ubriaco».

Il Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde

La querela si volse contro Wilde, Queensberry venne prosciolto, per Wilde colpevole di “pratiche illecite” furono la prigione e l’obbrobrio. Lo sdegno dell’opinione pubblica non apparve incomprensibile né ingiustificato; a noi non tocca di indignarci bensì di capire più che di assolvere. Ci interessano la psicologia di Wilde, la sua reazione non tanto allo scandalo quanto al dolore: nel complesso, dopo lo sbalordimento dell’impatto con la vergogna, si deve riconoscere che la sua vitale forza gaelica tenne duro nei due anni del carcere per poi declinare dopo la liberazione nell’opacità di una resa alla quale il male fisico, la salite aggravata dall’alcolismo, contribuì in alto grado.
È certo tuttavia che la sventura non significò la fine di Oscar Wilde come scrittore: la lunga “epistola” nota come De Profundis, rivolta a Lord Douglas e pubblicata postuma, fu composta nel carcere di Reading e, benché non solleciti un’ammirazione critica, testimonia il persistente, puntiglioso anzi cavilloso vigore letterario del prigioniero. Dispiace in De Profundis, atto d’accusa abbastanza ingiusto contro il “redivivo Antinoo”, l’autocompatimento insistito; qualcuno, fuorviato dallo slancio misticheggiante di questa prosa, si è spinto a lodarla come punto saliente dell’arte e della filosofia wildiana, ma è difficile non concordare con Cecyl Connolly quando parla di «geremiadi e recriminazioni, sabbie mobili in cui affondiamo fino al collo».

Al contrario l’ultimo canto di Wilde, La ballata del carcere di Reading (1898), è davvero il canto del cigno: il poeta la maturò in prigione, costernato per una volta da un’angoscia altrui nella quale dimenticare o annullare il culto di sé, la elaborò con lentezza affidandosi a un’umiltà disadorna, a un grigiore come di cenere sotto il quale rosseggiano le braci della collera, della protesta e della pietà. È un Wilde nuovo, irripetibile alle soglie dell’ombra. La ballata apparve in un’edizione dismessa, senza il nome dell’autore ma segnata dall’indicazione della sua sigla carceraria “C. 3.3.”. Hugo von Hofmannsthal alluderà più tardi alle tre maschere del poeta, la prima delle quali, Oscar Wilde come Oscar Wilde, «suggerisce splendore, fascino e orgoglio», mentre la seconda è «spaventosa, un marchio impresso col ferro rovente sulla spalla di un criminale» e la terza «un domino pietoso preso in affitto per nascondere una lenta agonia». Appena tornato libero nel 1897 Wilde firmò Sebastien Melmoth un telegramma all’amico Robert Ross; Melmoth, l’ultima maschera, è l’eroe demoniaco e patetico di un romanzo dello zio materno di Wilde, il reverendo Charles Robert Maturin, «dall’aspetto di un Don Chisciotte sempre sul punto di andare a combattere contro qualche mulino a vento», un’altra follia irlandese.

Oscar Wilde, ovvero Melmoth l’errante, visse ancora tre anni, tra Francia e Italia, esecrato in patria, diviso fra l’attrazione e il rancore per Alfred Douglas, privato della potestà dei figli, povero, indebitato, disertato dall’ispirazione, alcolizzato, sconfitto. Gli furono concessi ulteriori, effimeri momenti di piacevolezza mondana, subito contraddetti da uno sconforto nelle cui spire Wilde meditava il suicidio. Il vizio che seguitò a devastarlo aveva contraffatto il suo volto; la sua anima, con aspirazione contraddittoria, anelava all’inferno e alla luce. Quando morì, il 30 novembre 1900 a Parigi, aveva ricevuto l’olio santo nell’agonia ed era stato ammesso alla Chiesa Cattolica.
La “dama scarlatta”, come nella giovinezza dublinese aveva chiamato la Chiesa di Roma, posò infine al suo fianco, almeno è dato sperare.

 

Il Ritratto di Dorian Gray e la Bellezza maledetta.

Un “classico” solo del decadentismo, il Ritratto di Dorian Gray, The Picture of Dorian Gray,  resta dopo un secolo fra i libri che si leggono di più, tradotto e ripubblicato in ogni lingua, amato ancora dai giovani; romanzi altrettanto “maledetti” e famosi alla fine dell’Ottocento (Le Vergini delle rocce di D’Annunzio, per esempio, ma anche A ritroso di Huysmans) non ci si offrono ormai se non come oggetto di studi specialistici; starei per dire come reperti archeologici.
A cominciare dai Ritratti immaginari di Walter Pater e dai turbolenti libri di André Gide, sebbene quest’ultimo continui a godere di prestigio accademico, la narrativa decadentistica è vastamente dimenticata.
Dorian Gray ha dalla sua parte un’essenzialità mitica che forse ne spiega la fortuna, un paragone sensato deve apparentarlo al Dottor Jeckyll e a Sherlock Holmes. Oscar Wilde al pari di Stevenson e Conan Doyle possiede nel suo unico romanzo, a dispetto delle intenzioni ambigue, il segreto della “suspence” nella semplicità.
Una coincidenza curiosa:  Il Ritratto di Dorian Gray (The Picture of Dorian Gray) vide la luce nel numero di luglio 1890 del Lippincott’s Monthly Magazine, la stessa rivista che in quel medesimo anno pubblicò Il segno dei Quattro di Conan Doyle, e fu il battesimo di Sherlock Holmes.

Il Ritratto di Dorian Gray

Dorian Gray ci si svela sotto un segno faustiano: ha vent’anni, è aristocratico, ricco, bellissimo; il suo fascino ammalia Basil Hallward, il pittore che l’ha ritratto, e subito dopo il cinico raffinato Lord Henry Wotton e infine se stesso quando si ammira nel quadro: «Io diventerò vecchio, brutto, ripugnante. E questa immagine rimarrà sempre giovane quale io sono in questa giornata di giugno. Se si potesse realizzare il contrario! Se io dovessi rimanere sempre giovane e il ritratto diventare vecchio! Per questo, per questo darei qualunque cosa! Darei la cosa più preziosa al mondo». La cosa più preziosa al mondo è ovviamente l’anima; non c’è Mefistofele sulla scena – benché le lusinghe di Lord Henry somiglino a quelle del Tentatore – ma misteriosamente il patto scellerato si avvera.
Il lettore al pari di Dorian ne verrà a conoscenza più tardi: la vita di Dorian procede in una Londra color nero e oro al fianco di Lord Henry consigliere di impudenze non meno che di squisitezze, poi sboccia effimero in Dorian l’amore per Sybil Vane, attrice giovinetta che interpreta Shakespeare in un sordido teatrino nell’East End.
Sybil delude Dorian e i suoi amici in una recita disastrosa nella quale la ragazza impersona Giulietta, Dorian sa che Sybil ha perduto se stessa come attrice per aver trovato nell’amore di lui la sua verità di donna eppure non la perdona. Sybil si suicida, Dorian non se ne cura. Quel giorno, per un occulto influsso della materia, il quadro comincia a corrompersi; appaiono piccole pieghe crudeli attorno alla bocca dipinta da Basil Hallward, Dorian si scruta nel ritratto con un misto di meraviglia e di orrore, getta un drappo purpureo sul quadro, lo relega in soffitta.
La sua propria bellezza, la sua giovinezza, la sua sembianza di candore sono salve e dureranno sino alla fine.

Il quadro, per molti anni, accumulerà le tracce dell’invecchiamento e dell’abominio giacché il destino di Dorian si sostanzia nel male; al sommo delle infamie, nel tentativo disperato di uccidere la propria coscienza, Dorian pugnala al cuore il ritratto. Corrono i servi: «Appeso al muro videro uno splendido ritratto del padrone quale l’avevano visto l’ultima volta in tutta la magnificenza della sua meravigliosa bellezza e gioventù. Per terra giaceva un uomo, morto, con un coltello piantato nel cuore. Era canuto, il viso raggrinzito e ripugnante. Solo esaminando gli anelli riuscirono a riconoscerlo». Ecco una conclusione perentoria; raramente Wilde sa essere così stringato o assoluto.
Il romanzo come tale, a parte l’arcana vitalità che gli consente di resistere al tempo, ha certamente più vizi che pregi. La critica dell’epoca, tranne poche eccezioni, stroncò e deplorò Dorian Gray a causa del suo immoralismo; i critici di oggi lo tacciano di preziosismo e di superficialità.
Non a torto Mario Praz annota, fra divertito e irritato: «Nel bel mezzo di una scena che vuole essere orripilante il Wilde è capace di insinuare una sigaretta oppiata, un paio di guanti giallo-limone, una scatola di cerini laccata, un vassoio d’argento Luigi XV, o una lampada saracenica intarsiata di turchesi, che fan crollare tutto l’edifizio rivelando che il vero interesse dell’autore è nel decorativo».

Si può aggiungere un’altra censura: i personaggi del Ritratto sono inconsistenti, a parte forse Lord Henry in cui Wilde riconosceva se stesso immalinconendosi ed esaltandosi sulla sua capacità di seduzione altissima ma prossima a sfiorire (tutto il libro è marcato da presagi infausti); nondimeno diciamo che non avrebbe senso confutare Oscar Wilde perché non ha rispettato l’idea di romanzo – l’atmosfera “reale”, la psicologia giusta – così come la concepiva Flaubert. A Wilde interessava in Flaubert l’autore “scandaloso” di Madame Bovary, sarebbe stato deliziato se anche il Ritratto di Dorian Gray avesse subito un processo pubblico in cui far valere con splendore di paradossi il proprio disprezzo per l’Inghilterra dei filistei.
The Portrait of Dorian Gray è anche un libello fin troppo disinvolto contro il puritanesimo vittoriano, ed è molte altre cose ancora. Non dobbiamo misurarlo col metro del romanzo. Una delle sue ricchezze consiste nell’attestarsi come catalogo, fastoso e ingenuo insieme, dei valori preminenti della sensibilità di Wilde: in primo luogo il culto della giovinezza («Non c’è nulla che la valga, le sole persone molto più giovani di cui ascolto le opinioni con qualche rispetto sono le persone molto più giovani di me, mi pare che mi camminino davanti») contrappuntato fatalmente dal terrore della vecchiaia, il che non può non diffondere su queste pagine una polvere di malinconia. Grazie alla lingua di Wilde, sinuosamente musicale, anche la malinconia è lucente; lo stile è un altro degli amori supremi dell’esteta.
Il suo credo “filosofico” è dunque l’estetismo, il quale si attua nel tentativo di adeguare la vita all’arte considerando come un’arte vera e propria la capacità di comportarsi secondo uno spiritualismo nuovo che si impronti a «un raffinato istinto della Bellezza».
Quanto alla Bellezza, essa «è una specie di genio, più grande del genio perché non ha bisogno di spiegazioni»: in tal modo, ed ecco una caduta nell’ingenuità, Oscar Wilde fa del suo meglio per aggregarsi all’irrazionalismo nietzschiano. «Guarire l’anima con i sensi e i sensi con l’anima» ciò che preme a Wilde è il trionfo dell’individualismo nella certezza che l’individualismo possegga già i suoi campioni o demiurghi. Il superuomo di Wilde, nel quale non si celebra la potenza che distrugge ma la pacatezza vittoriosa, è l’artista, il vero artista che crede completamente in se stesso.

A Wilde, poi, piacciono i simboli; l’idea e la struttura portante del Ritratto si identificano in un’allegoria la cui natura “alchemica” non è investigata se non con deboli argomentazioni “atomistiche” o variamente pseudoscientifiche ma le cui fonti risalgono a poeti preziosi o ingegnosi degni che l’esteta li ammiri.
Nei Racconti di Pietroburgo di Gogol gli occhi di un usuraio morto gli sopravvivono atrocemente nella tela che lo ritrae, Edgar Allan Poe immagina nel Ritratto ovale che un pittore uccida la moglie troppo amata nel raffigurarla con lento studio in un quadro la cui perfezione si nutre vampirescamente dell’essenza di lei.
Per l’autore del ritratto reale che suggerì a Wilde la storia, si presume che l’esteta pensasse a Sargent; il modello sarebbe Graham Robertson, uno dei giovani amici di Wilde, arredatore e costumista, vezzeggiato da Sarah Bernhart, protetto da Robert de Montesquiou, inarrivabile dandy.
Questo è amaro per Wilde: egli ammirava Montesquiou al punto che secondo alcuni Dorian Gray “era” Montesquiou, ma Montesquiou trovava Wilde scostante, un “Antinoo dell’orrore”.
Ciò non toglie che Wilde, fedele al suo gusto, ammettesse che A ritroso di Huysmans, dove Montesquiou viene glorificato, fosse tutt’uno o quasi con il terribile ammaliante “libro dalla copertina color ocra” da cui Dorian Gray è avvelenato ed esaltato.

Pregi oggettivi, non discutibili del Ritratto consistono in pari misura nello scintillio dei dialoghi (artefatti con provocazione, calibrati con una sapienza ricca che ricrea la naturalezza) e nell’effusa ma talvolta dissimulata potenza dell’ambientazione o paesaggio. Da questi punti di vista il Dorian Gray ha pochi raffronti nella letteratura moderna non solo inglese: gli ampi squarci dialogati preludono alla felicità dell’Ernesto, la Londra del Ritratto è resa in un gioco di contrasti per cui le strade nebbiose, gli angiporti, le botteghe degli antiquari, le case patrizie, le insidie della sera, l’autunno malinconico, i giardini in rigoglio, lo smalto del cielo d’estate acquistano un rilievo iperrealistico nella trasfigurazione della poesia. Londra, come in Dickens e Stevenson, diventa minacciosa fino all’angoscia; certi scorci paesistici accostano nello stupore la metropoli di Wilde al corrusco Chesterton e al Rimbaud visionario delle Illuminazioni; l’estasi del giugno londinese – il tripudio dei lillà, la luce color albicocca al crepuscolo – è tutta wildiana. Ed è tutto wildiano il narcisismo autobiografico a mezza via tra la confessione e la posa.

Ma esistono un paio di motivi per i quali l’importanza documentaria o storica del Dorian Gray è innegabile. Wilde, come osserva Philippe Jullian, delinea l’affresco di un’aristocrazia al tramonto «perché poi l’alta società ha perso il suo prestigio estetico quando è scesa da cavallo per salire in automobile, quando ha dato ricevimenti al Ritz invece che nelle sue dimore, quando ha preferito i nights all’Opera»; i fasti e la meschinità della classe alta vengono registrati in Dorian Gray come nei Guermantes, pur senza l’ironico, spietato scavo di Proust. Infine, in un libro dove molto materiale è palesemente d’accatto, una nota imperiosa e umbratile a un tempo: The Picture of Dorian Gray  rappresenta il primo romanzo omosessuale moderno (Basil Howard dichiara senza più remore la sua passione al modello); bisognava risalire al Satyricon di Petronio per imbattersi in istanze così esplicite e aspettare vent’anni perché Thomas Mann scrivesse Morte a Venezia.

Gaetano Algozino                                  Londra, Kidbrooke Village 23 ottobre 2020

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