Thomas More, Tomaso Moro e Utopia, vita e opera di un politico divenuto Santo
Dagli oscuri e brumosi paesaggi descritti da Malory nella Morte di Re Artù approdiamo, quasi in un ideale salto “storico” di circa cento anni, alle immaginifiche e beatificanti sponde di un’isola felice, l’isola di Utopia.
De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia.
Paradossalmente possiamo affermare che il rinascimento inglese si inaugura con la pubblicazione di un’opera in lingua non inglese, l’Utopia di Tommaso Moro, essendo essa stata composta in lingua latina, e solo successivamente pubblicata in lingua inglese.
Il 1516, anno della sua pubblicazione, segna una vera e propria svolta socio-politica nella vita della Gran Bretagna e dell’Europa cristiana in genere.
Ma prima di entrare nei meandri di questa isola “mentale” è giusto rivolgere, anche se per brevi cenni, la nostra attenzione alla biografia di questo grande uomo politico, filosofo e anche santo.
Vita di Tommaso Moro
Thomas More latinizzato in Thomas Morus e poi italianizzato in Tommaso Moro nacque a Londra il 7 febbraio 1478.
Figlio di Sir John More brillante avvocato e giudice di successo, entrò ben presto nella corte di Enrico VIII, dal quale venne nominato cavaliere nel 1521.
Come studioso fu inizialmente un umanista nel senso più comune del termine.
Fu grande amico di Erasmo da Rotterdam, che gli dedicò il suo Elogio della follia.
In seguito, le relazioni tra i due si deteriorarono, poiché Moro fu impegnato nella difesa dell’ortodossia religiosa cattolica, mentre Erasmo denunciò apertamente quelli che a lui apparivano come errori della dottrina cattolica. Come consigliere e segretario di Enrico VIII, Moro contribuì alla redazione de “La difesa dei sette sacramenti“, una polemica contro Lutero e la dottrina protestante e in difesa dell’istituzione del Papato che fece guadagnare al sovrano il titolo di Difensore della fede da parte di Papa Leone X nel 1521.
Sia la risposta di Martin Lutero a Enrico sia la conseguente Responsio ad Lutherum furono criticate per i loro intemperanti attacchi ad hominem.
Moro fu un difensore strenuo ed eccezionalmente coerente del primato del Papato e della Chiesa cattolica, sia dal punto di vista spirituale (come il titolo del clero di redimere il peccato) sia temporale (come per il primato della legge canonica sulla legge comune).
Il suo cancellierato (1529-1532) si distinse anche per la sua costante caccia agli eretici e alle loro opere, in questo periodo diversi furono infatti i riformisti portati al rogo come eretici.
Il cardinale Thomas Wolsey, potente arcivescovo di York, non riuscì a ottenere il divorzio e l’annullamento delle nozze con Caterina di Aragona che Enrico aveva cercato e fu costretto a dimettersi nel 1529.
Moro venne nominato cancelliere al suo posto, tuttavia non realizzò le richieste di Enrico su tale questione.
Essendo stato ben istruito in diritto canonico, oltre che devotamente cattolico, Moro considerava l’annullamento del sacramento del matrimonio come una questione all’interno della giurisdizione del Papato, e la posizione di Papa Clemente VII era chiaramente contro il divorzio.
La reazione di Enrico fu quella di mettersi a capo della Chiesa d’Inghilterra. Solo al clero venne richiesto di prestare l’iniziale giuramento di Supremazia, dichiarando il sovrano come capo della Chiesa.
Moro, in quanto laico, non sarebbe stato soggetto a questo giuramento, ma si dimise da cancelliere il 16 maggio 1532, piuttosto che servire il nuovo regime, ormai dichiaratamente anti-papale.
In un primo tempo Moro sfuggì a un tentativo di collegarlo a un episodio di tradimento.
Tuttavia l’approvazione nel 1534 dell’Atto di successione da parte del Parlamento di Westminster (che includeva un giuramento che riconosceva la legittimità di ogni figlio nato da Enrico e Anna Bolena e ripudiava ogni autorità straniera, principe, o potentato) si rivelò uno strumento nelle mani della corona contro gli oppositori del re.
L’ Atto prevedeva infatti che questo giuramento non venisse richiesto a tutti i sudditi, ma solo a coloro che vennero specificamente convocati a prestarlo: ovvero, coloro che rivestivano un incarico pubblico e coloro i quali erano sospettati di non appoggiare Enrico.
Moro venne chiamato a prestare tale giuramento nell’aprile del 1535 e, a causa del suo rifiuto, fu imprigionato nella Torre di Londra.
Nella Torre di Londra egli continuò a scrivere.
La sua scelta fu quella di mantenere il silenzio, comunemente interpretato come allo stesso tempo assenso e rifiuto di abiura. In una famosa lettera alla figlia Margaret egli scrisse:
«Sapessi Margaret, quante e quante notti insonni ho trascorse, mentre mia moglie dormiva o credeva che fossi anch’io addormentato, a passare in rassegna tutti i pericoli cui potevo andare incontro: spingendomi così lontano con l’immaginazione che ti assicuro che non può accadermi niente di più grave. E mentre ci pensavo, bambina mia, sentivo l’animo oppresso dall’angoscia. E tuttavia ringrazio Dio che, nonostante tutto, non ho mai pensato di venire meno al mio proposito, anche se fosse dovuto accadermi il peggio che andava raffigurandomi la mia paura. »
Quando però questa mossa fallì venne processato, condannato, incarcerato e quindi giustiziato a Tower Hill il 6 luglio 1535.
Avanzò quindi verso il ceppo, davanti al quale s’inginocchiò per la recita del Miserere. Poi si rialzò in piedi, e quando il boia gli si avvicinò per chiedergli perdono, lo baciò affettuosamente e gli mise in mano una moneta d’oro.
Poi gli disse: “You make me today the greatest service that a mortal can make. Just be careful: my neck is short. See not to miss. It should be your reputation” (tu mi rendi oggi il più grande servizio che un mortale mi possa rendere. Solo sta attento: il mio collo è corto. Vedi di non sbagliare il colpo. Ne andrebbe della tua riputazione).
Non si lasciò legare. Da sé si bendò gli occhi con uno straccetto che s’era portato appresso. Quindi, senza fretta, si coricò lungo disteso, appoggiando il collo sul ceppo, che era molto basso.
Inaspettatamente si rialzò con un sorriso sul labbro, raccolse con una mano la barba e se la collocò di lato celiando: “This beard at least has committed no betrayal!” (questa barba per lo meno non ha commesso alcun tradimento!)”.
La sua testa venne mostrata sul London Bridge per un mese, quindi recuperata (dietro pagamento di una tangente) da sua figlia, Margaret More Roper.
La più celebre opera di Tommaso Moro, che fu proclamato Santo martire da Papa Pio XI nel 1935 e Patrono dei politici e dei governanti cattolici da Papa Giovanni Paolo II nel 2000, è, come si è detto, Utopia.
Utopia, l’ Opera maggiore di Tomaso Moro
Pubblicata nel 1516 l’opera in prosa latina si divide in due libri, la Città reale e la Città perfetta.
More stesso coniò il termine di utopia cercando di fondere insieme due parole greche ou-topos (nessun luogo) ed eu-topos (luogo felice): dunque letteralmente Utopia significherebbe un non luogo felice, o un luogo felice inesistente.
In una breve introduzione che descrive la triste condizione del popolo inglese, More dice pacatamente verità terribili, come: “le pecore hanno mangiato gli uomini”, cioè il governo inglese, dopo aver incamerato i beni dei comuni per i favoriti del re, ha tolto la terra ai contadini e vi ha messo pecore, costringendoli al banditismo per vivere.
“Che altro fate voi? Prima fate dei ladri, poi li punite”.
Contro le gravi colpe della società del suo tempo, egli crea uno Stato immaginario nella fantastica isola di Utopia.
Il regime sociale ed economico si basa sulla obbligatorietà del lavoro e sulla giornata lavorativa di sei ore, perché rimanga all’operaio il tempo per coltivare la mente.
Gli intellettuali sono considerati improduttivi e il loro numero è limitato.
Soppressa la proprietà privata secondo il concetto platonico della proprietà di Stato e abolito il denaro, la vita economica è basata sullo scambio di merci depositate in grandi magazzini pubblici.
I pasti frugalissimi sono presi in comune; i metalli preziosi sono disprezzati e l’oro serve a fare catene per schiavi o tavolette infami da appendere al collo dei condannati.
Con efficace umorismo è descritto un ricevimento di ambasciatori in abiti di gala, scambiati dagli Utopiensi per i buffoni degli ambasciatori stessi.
Il More giustifica la schiavitù e il commercio degli schiavi; lascia intatto l’istituto della famiglia e la religione cattolica, però rispetta anche le altre, eccetto l’ateismo e il materialismo, i cui seguaci sono esclusi dagli uffici pubblici.
Ingegnosamente concilia i precetti della carità cristiana con un moderato epicureismo per cui gli Utopiensi, in contrasto con l’ascetismo religioso del Medioevo, desiderano per se stessi e per il prossimo piaceri dello spirito e piaceri del corpo e fra questi ultimi il principale è la salute, per cui quelli che ne sono privi sono consigliati a un dolce suicidio.
La costituzione politica è una specie di federazione democratica governata da un principe, Utopus, che è anche il fondatore e il legislatore dello Stato. Le leggi sono poche e chiare e rappresentano una critica al carattere complicato e confuso della legislazione inglese, causa di soprusi e malversazioni.
Lo Stato non deve essere una cospirazione dei ricchi contro i poveri, e il principe resta subordinato a esso e al popolo. Quanto alla organizzazione militare, il More istituisce la coscrizione obbligatoria, ma soltanto per la difesa del paese.
La pace è considerata il più alto scopo politico dell’uomo di Stato e non vi è cosa più biasimevole della gloria acquistata con le armi.
Quando la guerra è necessaria, gli Utopiensi assoldano una tribù di mercenari, gli Zapoleti, che fanno però combattere fuori del loro territorio insieme con altri popoli malvagi, assegnando loro il posto più pericoloso, in modo che, essendo pochi i sopravvissuti, realizzano economie sui forti premi promessi a questi mercenari e insieme compiono, a loro criterio, opera morale, purgando l’umanità da genti malvage. Spesso anche eccitano contro i nemici i popoli vicini, aiutandoli con denaro e facendoli così combattere al loro posto. Tutti i mezzi sono buoni per vincere: fomentare sollevazioni fra i nemici, corrompere uomini di Stato e generali, assoldare assassini per far uccidere i capi dello Stato e dell’esercito avversario.
E questa è considerata pietà, perché con la morte di pochi si salva la vita di molti.
Questa breve opera che fonde concetti classicamente tradizionali con elementi innati nel temperamento del popolo inglese e con idee precorritrici, ebbe larga fortuna.
Rappresenta la mentalità del Rinascimento inglese prima della Riforma, e uno dei primi tentativi, frequenti in Inghilterra, di meta-politica o metafisica politica, fra cui famosi La Nuova Atlantide di Francis Bacon e l’Oceana di James Harrington.
Alla sua diffusione contribuirono la purezza del linguaggio, il fine umorismo e la potenza descrittiva e drammatica del dialogo.
Come ha ben scritto Cosimo Quarta, uno dei maggiori studiosi italiani dell’Utopia, nel suo documentatissimo saggio Tommaso Moro. Una reinterpretazione dell’Utopia (Edizioni Dedalo, Bari 1981):
<<Fu buon profeta Busleyden, quando nella sua lettera a Thomas More del novembre 1516 che doveva costituire la prima prefazione all’Utopia, affermava che il paese ivi descritto sarebbe stato “da molti popoli temuto, da tutti rispettato e in tutti i secoli ammirato”.
Tale previsione, infatti, si è, almeno entro certi limiti, puntualmente avverata
Gaetano Algozino, South Norwood London, 23 aprile 2015.
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