Finalmente parlo di loro! Nonostante il look spesso inquietante questa band, per la quale è difficile trovare aggettivi, dopo quasi 40 anni di carriera è, almeno per la sottoscritta, la più “rassicurante” tra quelle ancora in attività.
Con i loro funambolici passaggi dal post-punk al pop e poi al dark, gothic e poi ancora al rock, i Cure hanno completato il panorama musicale inglese degli anni ’80 facendo, per così dire, quadrare il cerchio; paradossalmente trovo che rappresentino l’antitesi e, al tempo stesso, l’essenza di quel decennio caratterizzato da enormi contrasti sul piano economico, sociale e, inevitabilmente, musicale.
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Il terzetto di diciottenni provenienti da Crawley (Sussex) composto da Robert Smith (leader indiscusso, autore, voce e chitarra), Michael Dempsey (basso) e Lol Tolhurst (batteria), dopo una serie di deludenti esperienze come Easy Cure, nel 1978 fa il suo ingresso sulla scena musicale con un singolo di grande impatto: Killing An Arab. Questo primo brano non potrebbe essere miglior biglietto da visita grazie al particolarissimo testo (ispirato ad un romanzo di Camus) e allo stile (decisamente punk) contaminato da atmosfere esotiche. Completa l’opera la voce spettrale, a tratti angosciata, di Robert Smith. Inutile parlare della censura intervenuta su questo singolo a causa del titolo (dopo i fatti del 11 settembre 2001 il brano è stato bandito da tutti i canali radiofonici americani) tanto che gli stessi Cure non hanno più eseguito questo pezzo dal vivo fino al 2005, anno in cui è stato riproposto con il nuovo titolo Kissing An Arab.
Il singolo successivo Boys Don’t Cry (1979) conferma il grande talento di Smith nel costruire melodie pop-rock. Nello stesso anno esce il primo album Three Imaginary Boys contenente il mirabile Fire In Cairo: benché il gruppo si sia sempre dichiarato insoddisfatto del loro lp d’esordio questo è stato fonte di ispirazione per molte band nei due decenni a seguire.
Il secondo album Seventeen Seconds (1980) consegna definitivamente i Cure alla storia della musica: Michael Dempsey abbandona per dissidi con Smith, il suo posto viene preso da Simon Gallup; brani come A Forest e At Night, benché cupi e malinconici, regalano atmosfere glaciali ed ultraterrene grazie, soprattutto, al contributo del nuovo bassista.
Il terzo album Faith (1981) risente delle influenze New Wave nonostante le atmosfere funeree: da ascoltare i brani All Cathe_curets Are Grey (che troviamo nel 2006 come soundtrack del Film “Marie Antoinette” di Sophia Coppola) e Funeral Party, portabandiera dei Cure più gotici. A questo farà seguito il singolo Charlotte Sometimes, più romantico e ballabile, omaggio alla donna come unica ancora di salvezza contro l’angoscia esistenziale.
Pornography (1982) è uno dei lavori migliori: i brani, ossessivi, melodici e dolorosi al tempo stesso, risultano uno specchio irresistibile per i giovani fans disorientati da crisi economica, vuoto di prospettive e dall’esagerato conformismo degli anni ottanta. Il fenomeno Cure dilaga dall’Inghilterra al resto d’Europa.
The Top (1984) si rivela un album di transizione nonostante alcuni pezzi toccanti come Love In The Asylum mentre il successivo The Head On The Door (1985), grazie al perfetto stile pop, raggiungerà il successo con brani come Close To Me accompagnati da videoclip di grande effetto.
Nel 1987, complice l’ingresso nel gruppo dell’ottimo chitarrista Paul Thomson, i Cure raggiungono l’apice della loro carriera con l’album Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me: le pulsioni di morte lasciano il posto a toni più caldi e agli stili più disparati (orientali, funky, rhythm and blues, disco….):assolutamente da ascoltare Just Like Heaven e If Only Tonight We Could Sleep.CureDisintegration
Il capolavoro assoluto, però, arriva nel 1989 al culmine della loro maturazione artistica con l’album Disintegration, estremamente nostalgico, romantico e drammatico, contenente Lovesong e Lullaby, brano che sarà indissolubilmente associato al gruppo e che, se ancora sconosciuto, deve essere immediatamente ascoltato.
Al di fuori del mio periodo di competenza appartengono gli album Wish (1992), Bloodflowers (2000) e 4:13 Dream (2008).
Vorrei e potrei raccontare molto di più su questa band che, come avrete capito, è tutt’oggi tra le mie preferite: li ascolto spesso sorprendendomi per come ogni volta riescano a regalare l’accompagnamento giusto a qualsiasi umore o stato d’animo. Per me i Cure rappresentano una sorta di “comfort food” musicale, “un qualcosa”- qui cito Ivano Fossati – “che sta lì e che non fa male”… .
Luisa Volpicelli
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