Easter rediviva o L’ altra Pasqua (la Pasqua inglese)
La Pasqua nelle tradizione inglese vuole essere un piccolo viaggio nel mondo delle superstizioni e delle credenze inglesi sulla Pasqua.
La Gran Bretagna è una grande, antica isola e come tutte le isole mantiene ancora più strette le sue tradizioni più antiche. ( Succede lo stesso per la Sardegna o la Sicilia in Italia).
Il misterioso e sfuggente carattere dei suoi abitanti, così come dei suoi costumi e riti tradizionali, è stato descritto in maniera egregia dallo scrittore e umorista francese Pierre Daninos (1913-2005): «Un inglese rimane sempre un inglese e non si mescola con nulla. Ventun miglia di mare e uno storico bastione di usi e costumi mantengono la sua isola lontana da ogni possibile contaminazione. Egli stesso, così raramente soggetto ad emozioni, è invariabile come il suo articolo determinativo e inaccessibile, eppur vicino, come la sua isola. Una magica cortina protettiva conferisce all’inglese una visione indiretta e purificata di quel mondo che è oltre il canale della Manica 1 »( 1 La citazione di Daninos dalla sua opera Major Thompson lives in France è riportata in inglese nel volume: G. FESTI, Grammatica della lingua inglese, Editrice Ponte Nuovo, Bologna 1980, p. 155.).
Sebbene la contaminazione con altre razze, lingue e culture sia avvenuta in passato e costituisca oggigiorno un processo inarrestabile, pur tuttavia la Gran Bretagna ha sempre saputo conservare gelosamente il suo ricchissimo patrimonio storico-culturale, dando ad esso un carattere e un sigillo tuttora distinguibili.
Qui nulla è come nel continente, semplicemente per il fatto che tutto è visto da un’angolatura diversa, quella “british” appunto, che è un carattere precipuo dello spirito umano incomprensibile oltre la Manica, ove tutto è normale e più chiaro.
In tal senso, anche le celebrazioni pasquali rientrano in questa descrizione generale del carattere nazionale, giacché riflettono caratteristiche proprie delle genti anglo-sassoni, che hanno saputo cristallizzare, nel corso dei secoli, significati, simboli, riti, superstizioni e leggende attorno all’evento centrale della vita cristiana: la passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo, Figlio eterno di Dio.
A cominciare dai nomi delle stesse feste, che sono tutto un programma e nascondono intriganti curiosità etimologiche.
Questo articolo, lungi dallo spiegare lo sviluppo storico e le modalità celebrative della Pasqua liturgica e di quella “secolare”, si prefigge lo scopo di esplorare brevemente l’affascinante mondo delle superstizioni contadine inglesi, che seppur quasi definitivamente tramontato, non cessa di attrarre l’attenzione dello studioso.
Intrecciando l’analisi antropologica con una piccola scorribanda etimologica, la mia attenzione si è posata unicamente su alcune credenze e leggende che, sebbene in maniera ridotta, persistono ancora nell’immaginario collettivo.
Per la compilazione di questo scritto mi sono servito di due opere fondamentali nel campo degli studi etnologici inglesi, che fanno capo al nome di Steve Roud, antropologo e storico del Sussex.
Esse sono l’Oxford Dictionary of English Folklore, e la rigorosa e godibilissima monografia A Pocket Guide to Superstitions of the British Isles.
Alla fine di questo singolare percorso vien fuori un’immagine non ufficiale, altra, misteriosa della Pasqua Britannica, in cui sembrano ancora rivivere gli antichi miti di fertilità e di maledizione legati al millenario culto di Easter.

Easter, la Pasqua Inglese
Per un continentale che viva nel Regno Unito tutto diventa esotico, degno di indagine e di accurata considerazione. Oltre agli inevitabili scogli linguistici che le varie flessioni dialettali dell’inglese contemporaneo comportano, lo stranger europeo prima o poi avrà a che fare, in maniera più o meno consapevole, con il calendario cerimoniale delle feste britanniche.
Nella creazione di questo calendario cerimoniale un ruolo di primaria importanza lo ha svolto la Chiesa d’Inghilterra, o la Chiesa di Stato, che in seguito alla separazione dalla Chiesa romana operata da Re Enrico VIII nel XVI secolo, ha dato vita al cosiddetto calendario liturgico anglicano.
Sebbene la maggior parte delle feste britanniche conservi ancora un significato cristiano, l’anglicanesimo tuttavia non esercita più sulle coscienze di molti quel richiamo all’antica tradizione isolana, secondo cui ogni festa nazionale ha un diretto legame con la Chiesa, la Parrocchia o il quartiere di appartenenza.
Dopo la riforma anglicana e la conseguente chiusura dei monasteri, per secoli la vita socio-economica delle genti britanniche si è retta su questi due istituti: Parish Church (chiesa parrocchiale) e borough (quartiere).
Spesso i confini di un quartiere coincidevano con il territorio della Parrocchia, per cui il “campanile” aveva una funzione non solo sacra ma anche civica.
Le feste del calendario britannico scorrono secondo un ritmo prefissato da una veneranda tradizione nazionale, che ne ha costellato l’anno con nomi strani, arcaici e il più delle volte incomprensibili.
Attraverso una piccola scorribanda etimologica cercheremo di far luce su molti nomi delle feste pasquali, cominciando dalla Festa per eccellenza, la Domenica di Risurrezione o di Pasqua.
Per un inglese che si rispetti non esiste altra parola per designare questo giorno festoso e solenne, se non l’anglo-sassone Easter, pronunciata nel sud England Ista con un notevole allungamento della a finale, e nel nord England, in Scozia e in Irlanda Ister, con una r alquanto rullante.
La più importante festività del calendario cristiano che commemora la Risurrezione dalla morte di Gesù Cristo cade, come è noto, nella prima domenica dopo il primo plenilunio dell’equinozio di primavera, così come calcolato a seguito di ingegnosi computi astronomici delle Chiese occidentali che risalgono al IV-V secolo d.C.
L’originaria parola anglosassone Easter, lungi dal designare questo mistero della Risurrezione meglio espresso nel concetto di Pasqua-Passaggio, rimanda piuttosto ad un passato mitico legato ai culti politeisti dei celti e dei Sassoni.
La parola, attestata già prima del 900 d.C., nell’Old English suonava Easterdaeg, da Eastre (in Northumbria Eostre), che a sua volta proveniva dal proto-germanico austron o dawn, nome che designava l’alba. Austron/Eastre/Easter era il nome della dea della fertilità e della primavera, forse originariamente dell’alba o del Sole che si innalza (sunrise), la cui festa veniva celebrata durante l’equinozio di primavera.
Easter, il cui nome tedesco è Ostern, contiene il suffisso east-aust che significa est od oriente, ovvero il luogo in cui sorge il sole, e aus in proto-germanico significa splendere (to shine) con riferimento alla luce aurorale.
Sia i sassoni che i celti veneravano ogni giorno con solenni culti sacrificali il sorgere di Easter, il cui splendore vinceva sulle tenebre della notte.
La ricorrenza annuale del primo plenilunio dell’equinozio di primavera, che celebrava Easter come incarnazione della rinascita della natura nel rigoglio primaverile dopo i rigori dell’inverno, è anche all’origine della parola inglese che designa la Domenica.
Anche qui, lungi dal riflettere il concetto cristiano di Dominica dies (giorno del Signore), la parola Sunday significa “giorno del Sole”, giorno del trionfo del Sole, e quindi intrinsecamente legato ai culti della fertilità primaverile.
A Easter/Ostara/Eostre era dedicato inoltre un intero mese, il cosiddetto Eosturmonap, che corrisponde al nostro Aprile, nel corso del quale si ricordava l’ascensione in cielo della dea circondata da angeli, animali e vegetali.
Così è raffigurata in una nota incisione di Johannes Gehrts del 1886: Ostara è il trionfo della natura animata e inanimata, punto di congiunzione tra terra e cielo, e reca nelle sue mani tronchi d’albero che irradiano uno splendore abbacinante. Questo antichissimo culto agro-pastorale è stato di recente confermato dalle scoperte dell’archeologia, dacché nel 1958 in Inghilterra furono scoperte più di 150 iscrizioni del II sec. a.C. riferentesi alle Matronae Austriahenae, ovvero alle sacerdotesse di Ostara o Easter, dea della fertilità e della primavera.
Questa tradizione anglo-sassone è giunta a noi tramite il De temporum ratione, opera del monaco inglese Beda il Venerabile (VIII sec. d.C.) sulla storia dei mesi dell’antico calendario britannico.
All’interno del capitolo 15, dopo aver descritto il culto della dea Rheda nel mese di marzo (Hrthemonath), Beda parla del culto di Eostre nel mese di aprile (Eosturmonath).
Egli scrive: «Il mese di Eostur ha un nome che ora è stato tradotto con quello di “mese pasquale”, e che una volta era chiamato così dalla dea Eostre, in onore della quale venivano celebrate delle feste in suo onore.
Ora essi designano il tempo pasquale col nome della dea, chiamando con il consueto vocabolo dell’antica osservanza pagana le gioie della nuova solennità cristiana».
A nulla valse, inoltre, il tentativo del primo traduttore della Bibbia in inglese, William Tyndale (1494-1536), nel 1530, di riportare nell’uso liturgico il nome cristiano della Pasqua, con l’invenzione del sostantivo Passover, che traduce letteralmente l’aramaico Pasha e l’ebraico Pesah, ossia la festa del passaggio o della transumanza primaverile degli armenti. Tyndale coniò questo termine dal verbo frasale pass over, in riferimento al brano biblico di Esodo 12 in cui si dice che il Signore passò oltre le case degli Israeliti segnate col Tau, quando uccise i primogeniti di Egitto.
E sebbene nel corso dei secoli XV e XVI fosse stato introdotto anche l’altro termine, più propriamente liturgico-ecclesiastico, di paschal, dal latino paschalis, purtuttavia avrebbe finito col prevalere l’antico nome anglosassone, Easter!
L’accenno di Beda il Venerabile diede l’avvio ad una lunga ricerca storico-etimologica ed antropologica, che ebbe il suo culmine nella prestigiosa opera Deutsche Mythologie (1835) del linguista tedesco Jakob Grimm.
Egli cita tutte le prove comparative a sostegno della tesi di una potenziale Dea germano-continentale della fertilità, il cui nome Easter sarebbe stato preservato nell’antico tedesco alto di Ostara.
Non contento di sfoderare le sue rigorose competenze di linguista comparativo, il Grimm descrive con dovizia di particolari i culti resi a questa dea, le cui festività erano talmente radicate nelle popolazioni germaniche e anglo-sassoni che i monaci evangelizzatori dei secoli V-VI preferirono non rimuoverne il nome dal calendario liturgico, perpetuandone in qualche modo il ricordo.
Ostara-Easter viene descritta inoltre come la divinità della luce radiante dell’alba, della luce rigenerante, uno spettacolo che apporta gioia e benedizione, il cui significato potrebbe essere facilmente accostato a quello del trionfo di Cristo sulla morte con la sua risurrezione.
In suo onore venivano accesi enormi falò e secondo un’antica credenza popolare di lungo corso, nel momento in cui il sole sorgeva, all’alba del giorno di Pasqua, la dea Easter faceva tre salti e iniziava una sublime danza con la sua corte angelica, ruotando attorno al Sole.
Questa superstizione è ancora viva tra i contadini e i pastori di Castleton, in Derbyshire, i quali, stando alle testimonianze raccolte da Steve Roud, fin dal 1895, alle 6 del mattino della Domenica di Pasqua, sono soliti scalare una collina, sulla quale è costruito un castello, per vedere il sorgere del sole.
Essi credono che in questo giorno il sole danzi di gioia per la sua levata.
Il mercoledì prima della Domenica di Pasqua un uomo del Derbyshire disse “Penso che il sole potrà a fatica contenere se stesso fino a Domenica!”.
Sempre nel Derbyshire i contadini dicono che il giorno della Domenica di Pasqua il sole, quando sorge, ruota attorno a se stesso, e per questa ragione, ancor oggi, molta gente accorre alla collina del castello per ammirare questa danza rotatoria del sole.
In risposta a coloro che dicono di non essere in grado di vedere questa singolare performance del sole, la gente credulona replica che molti osservatori non possono vedere questo fenomeno soprannaturale perché non hanno fede sufficiente, o che il Demonio ha oscurato questa visione meravigliosa. Il mito della danza di Easter e della sua corte angelica, al sorgere del sole della Domenica di Pasqua, fu immortalato dal poemetto di Sir John Suckling, Ballade Upon a Wedding (1646), Ballata per un Matrimonio, in cui, nella sua particolare descrizione, il poeta usa l’immagine di una fanciulla danzante ad un matrimonio, e questo fu ancora ampiamente conosciuto e ritenuto oggetto di “fede” fin al XX secolo 2 . (2 S. ROUD, A Pocket Guide to Superstions of the British Isles, Penguin Books, London, 2004, pp. 9. 3 S. ROUD, op. cit., p. 10.)
Good Friday, il Venerdì Santo
Il Venerdì Santo, giorno in cui la Chiesa commemora la crocifissione e morte di Gesù Cristo, è unanimemente riconosciuto dai popoli britannici col nome di Good Friday.
Le tradizioni popolari e le credenze sviluppatesi attorno al Good Friday rivelano una ambivalenza di lunga data circa il significato che esso rivestiva nell’immaginario delle gentes anglo-sassoni.
Agli occhi della religione ufficiale, la commemorazione della morte di Cristo è sempre stata una giornata diversa da tutte le altre dell’anno, e per ciò stesso segnata da digiuno, pianto, preghiera e penitenza, mentre per molti altri il Venerdì Santo è stata una giornata tutt’altro che triste e lugubre.
Questa confusione non è certo risolta, ma anzi accentuata, dall’aggettivo assegnato a questo venerdì, per appunto Good Friday.
In uso fin dal XIII secolo, in Gran Bretagna originariamente Good Friday stava per il Buon Venerdì, il Santo Venerdì, mentre, secondo alcuni etimologisti, Good non sarebbe che la corruzione di God’s Friday, ossia il Venerdì di Dio in cui si commemora la morte di Dio.
Holy Friday, così come Holy Week, che sono gli esatti corrispettivi dei nostri Venerdì Santo e Settimana Santa, sono rimasti in uso solo presso l’Irlanda cattolica.
Il concetto che questo venerdì fosse buono, bello, felice, conveniente e benefico perché connesso al sacrificio di Cristo, che con la sua morte in croce aprì a tutto il genere umano le porte della vita eterna, fu comunque una nozione troppo teologica, che ben presto finì col perdersi tra i rivoli di innumerevoli interpretazioni e rivisitazioni della tradizione popolare inglese.
Ai primordi del XIX secolo, prima dell’introduzione delle cosiddette Bank Holidays, giorni di vacanza nazionale legati alla chiusura periodica delle Banche, Venerdì Santo e Natale erano gli unici due giorni di vacanza del calendario concessi alla classe lavoratrice.
I lavoratori rurali, in particolare, consideravano il Good Friday quale giorno ideale per piantare le patate e pianificare i lavori nei giardini e nei feudi agricoli.
Essi si concedevano, durante questo giorno, particolari divertimenti e giochi, dal saltellare per i campi al noto gioco delle palline colorate (marble-playing), meglio conosciuto in Italia come gioco delle biglie.
Secondo la superstizione popolare, dunque, ci sono giorni buoni e cattivi, o quasi del tutto casuali, sicché il pane cotto nel giorno del Good Friday è fortunato e cura tutte le malattie, ma «colui che inforna pane e prepara infusi o bevande il Venerdì Santo vedrà bruciare la sua casa entro la fine dell’anno 3 » (Northamptonshire, 1851). Similarmente, «le 2 S. ROUD, A Pocket Guide to Superstions of the British Isles, Penguin Books, London, 2004, pp. 9. 3 S. ROUD, op. cit., p. 10. 4 patate dovrebbero essere sempre piantate il giorno del Good Friday» (Devon, 1972), ma «le patate non devono essere piantate il giorno del Good Friday, altrimenti vi sarà un cattivo raccolto» e così via. Il quadro si complica ulteriormente se consideriamo che a ciò si aggiungeva anche la paura, alquanto diffusa presso la classe contadina, che il Good Friday fosse il giorno più infelice dell’anno e che il Venerdì fosse il peggior giorno della settimana.
E’ alquanto probabile che questa stessa reputazione di giorno sfortunato provenga dall’estensione del Good Friday a tutta la Gran Bretagna, prima della Riforma anglicana, ma non appena essa divenne una giornata di vacanza per diritto, si rafforzò ulteriormente l’originaria reputazione negativa del Good Friday.

Steve Roud, l’etnologo e storico delle tradizioni inglesi citato all’inizio dell’articolo, ha raccolto, durante la sua ventennale e indefessa opera di rilevamento antropologico sul campo effettuata in quasi tutte le regioni dell’England, nella sua documentatissima opera sulle superstizioni nelle Isole britanniche, molteplici credenze ampiamente diffuse sul Venerdì Santo, che risalgono ai secoli XVIII e XIX. Mi limiterò a parlare solo delle due più importanti e curiose, ossia quelle connesse al pane del Venerdì Santo e alle maledizioni dirette a chi lavora nel giorno del Good Friday, per cui, come è noto, il Venerdì Santo non è giorno lavorativo in Inghilterra (4) . Indubitabilmente, la credenza più diffusa concerne la cottura di alcuni cibi speciali associati a questo giorno: pane, ciambelle, focacce ed uova.
La tradizione ritiene che il pane e i dolci confezionati nel giorno del Good Friday non siano soggetti a deterioramento ma che rimangano anzi edibili per sempre, e similarmente, le uova non vanno a male. Si riteneva anche che i cibi cotti nel giorno del Venerdì Santo avessero strabilianti poteri nell’ambito della medicina, e perciò venivano conservati presso molte case per l’uso lungo tutto l’anno a venire. Roud riporta questa singolare testimonianza del 1867 raccolta nel Suffolk: «Fermandomi un giorno presso un cottage, vidi una piccola pagnotta che stava appesa, in modo alquanto strano, in un angolo della casa.
Chiesi cosa vi fosse stato collocato ivi, e mi fu detto che era il pane del Venerdì Santo, che inoltre esso non si sarebbe ammuffito o deteriorato (e ad una accurata ispezione lo trovai tra l’altro molto secco) e che sarebbe stato alquanto utile contro certe malattie, soprattutto per l’arresto delle emorragie sanguigne .5 ».
Il pane miracoloso del Venerdì Santo fu inoltre ritenuto possedere numerose proprietà protettive, più comunemente contro il fuoco, ma anche, specie in certe aree costiere, contro i naufragi, e la sua presenza nelle cucine assicurava buona fortuna per la cottura dei cibi dell’anno a venire.
Una breve leggenda raccolta nell’Herefordshire spiega perché i prodotti infornati nel giorno del Venerdì Santo avevano un potere così speciale, ma è difficile valutare quanto fosse realmente conosciuta in passato, dal momento che è stata trascritta nel 1912. «Mentre il nostro Benedetto Signore stava trasportando la sua croce sulla via del Calvario, una donna che stava lavando uscì di casa e gettò l’acqua sporca del suo bacile sul Salvatore; un’altra donna che si trovava nelle vicinanze e aveva appena sfornato del pane le disse: “perché tratti in questo modo quel povero uomo? Egli non ti ha fatto alcun male!”.
Detto ciò ella diede al nostro Benedetto Signore una focaccia ancora calda ed egli la mangiò.
E nostro Signore disse: “D’ora in poi siano benedetti i panettieri, e maledetti i lavandai” (from henceforth blessed be to the baker, and cursed be the washer)».
La storia delle credenze nel misterioso potere del pane del Venerdì Santo è alquanto oscura.
Certamente fu molto conosciuta e ampiamente riportata lungo tutto il XIX secolo, e fu già in circolazione nella metà del XVIII secolo, ma prima di allora non vi è traccia alcuna di essa, a parte un riferimento molto antico identificato da Iona Opie e Moira Tatem nella lettera al Vescovo Wulfsige, scritta intorno all’anno 1001.
In questo importante documento l’abbate inglese Aelfric fa riferimento a dei preti che conservavano il sacramento eucaristico consacrato nel giorno di Pasqua, che sarebbe stato portato agli ammalati durante tutto l’anno.
Un’unica consacrazione avrebbe così mantenuto intatto il pane eucaristico per tutto l’anno, conferendo ad esso un potere soprannaturale, terapeutico e medicinale.
Se questa tradizione rimase attiva dal periodo medievale fino al XIX secolo, è un mistero perché non pare che sia stata menzionata da alcun altro.
Similarmente, se la credenza fosse re-introdotta dopo un lungo lasso di tempo, è difficile sapere perché, o come.
Queste leggende spiegherebbero forse il perché dell’usanza, tuttora viva e diffusa in tutta la Gran Bretagna, di mangiare nel giorno del Good Friday il dolce tipico pasquale, l’hot cross bun.
Questa deliziosa pagnotta confezionata con farina e uva passa, viene in genere mangiata calda con burro e marmellata.
Era l’unico pasto ammesso in questo giorno di lutto e di dolore, in cui però ancora una volta ritorna il concetto di buono e di dolce, good appunto.
Mangiando il pane con la croce, accompagnato da burro e marmellata di fragole, era come se si ricordasse in maniera del tutto speciale il dolce sacrificio di Cristo, che con la sua ignominiosa morte sulla croce aveva aperto un nuovo varco di salvezza ai peccatori.
Probabilmente il burro doveva simboleggiare l’acqua e la marmellata di fragola il sangue, che, stando al racconto evangelico della passione secondo Giovanni, uscirono dal costato di Cristo dopo che il centurione romano inferse un colpo di lancia al corpo esanime del Salvatore. Il nome di questo dolce rinvia al simbolismo della croce, che è tracciata sui pani, e pare che il primo hot cross bun sia stato confezionato dall’Abbazia benedettina di Saint Alban, a nord di Londra, nel XIV secolo e offerto ai poveri per il pasto frugale del Venerdì Santo.
In realtà questo pane risale ad un passato pagano, e stando alle ricerche di Roud, pare che si trattasse di un pane propiziatorio offerto ad una divinità lunare, di cui le quattro parti risultanti dall’intreccio delle due braccia della croce, ricordavano le quattro fasi della luna e le quattro stagioni dell’anno.
Altre superstizioni sul Venerdì Santo, in termini di proibizioni di certe attività, sono state documentate da Roud.
Una delle più diffuse era quella relativa all’interdizione sul lavaggio dei panni.
Varie calamità potevano essere il risultato di un atto così peccaminoso: panni lavati o stesi per asciugare sarebbero stati trovati schizzati di sangue, la schiuma di sapone avrebbe assunto il colore rosso, e intere famiglie sarebbero state terribilmente sfortunate, o addirittura qualcuno sarebbe morto se fosse stato trovato intento a lavare i panni nel giorno del Venerdì Santo.
Questa credenza è stata rinvenuta in un’area alquanto ristretta – tutti i riferimenti conosciuti provengono da località dell’England – e la più antica risale solamente al 1836.
Data la particolare natura del Good Friday come giorno solenne di lutto cristiano, non è sorprendente che esso fosse vissuto e sentito come una sorta di Grande ed eccezionale Domenica, in cui nessun tipo di lavoro doveva essere fatto.
La natura ambivalente delle credenze inglesi del Good Friday si mostra in modo ancor più chiaro nel mondo agricolo, ove, riguardo alla piantagione e alla raccolta dei vegetali, sono dati avvisi e consigli completamente opposti.
Questa è la testimonianza, registrata in Yorkshire nel 1866, che sostiene la tesi dell’astensione assoluta da qualsiasi attività lavorativa nel giorno del Good Friday. «Ho saputo da un prete, che si reca spesso a cavalcare nel Nord Yorkshire, che ivi la terra viene trattata con la massima cura e, perciò stesso, è considerata un’empietà usare vanghe, aratri, o erpici. Egli racconta di quando un ragazzo, venne a conoscenza di un abitante del villaggio, un certo Charlie Marston, il quale inorridì i suoi vicini per avere piantato le patate nel giorno del Venerdì Santo. Ma quelle patate non nacquero mai!6 ».
L’altra testimonianza contraria è stata rilevata in Devon nel 1838: «Molte persone allora iniziano a impostare i loro orti, e credono, per usare le loro parole, che tutto ciò che viene interrato nel giorno del Good Friday crescerà dolcemente (goody), e ritornerà ad essi con grande incremento».
Purtroppo, non è semplice operare una divisione tra le aree geografiche dell’Isola, dal momento che disposizioni positive, riguardo al Venerdì Santo, sono state rinvenute in ogni regione, sebbene le proibizioni più strette appartengano al Nord England e alla Scozia. Patate e prezzemolo venivano scelti particolarmente come più adatti per la piantagione nel giorno del Good Friday, ma tutte le colture venivano ritenute suscettibili di ricevere l’influenza benefica del giorno, sicché si riteneva che nascessero doppiamente.
Un lavoratore segnalato come riluttante a lavorare nel giorno del Venerdì Santo era il maniscalco.
Molti fabbri o maniscalchi nel giorno del Venerdì Santo si astenevano dall’accendere il fuoco nelle loro fucine, e non volevano avere nulla a che fare con i chiodi.
L’ultima testimonianza riportata da Roud spiega questa proibizione nel Durham (1866). «Un amico, che trascorse la sua adolescenza nel nord Durham, mi informa che nessun maniscalco lungo tutto quel distretto avrebbe forgiato alcun chiodo nel giorno del Venerdì Santo; il ricordo dell’orrendo scopo, per cui martello e chiodi furono usati nel primo Venerdì Santo, senza dubbio li tratteneva dal lavorare 7 ».
Altre versioni di questa proibizione includono anche la moglie del maniscalco.
La storia si riferisce al fatto che, quando i mantici a soffietto si rifiutarono di operare nel primo Good Friday, la moglie di un maniscalco usò il suo grembiule per ventilare le fiamme per produrre i chiodi, o che essa portò i chiodi ai carnefici avvolti nel suo grembiule. Così alcune mogli di maniscalchi nel XIX secolo si rifiutarono di indossare i grembiuli nel giorno del Good Friday.
Note:
4. Ad onore del vero, il Good Friday è, ancor oggi, giorno non lavorativo solo per ministeri pubblici, banche, aziende pubbliche e private, scuole, università e college. Fino a circa una ventina di anni fa, anche i trasporti pubblici (bus, treni, tram e metropolitane) si arrestavano per creare un’atmosfera di silenzio e di raccoglimento consona allo spirito di questa giornata particolare. Quanto agli altri esercizi commerciali (ristorazione, retail, negozi e supermercati), che seguono le leggi inflessibili del mercato globale (non inglese!), il Venerdì Santo, così come il Sabato e la Domenica di Pasqua, rappresentano i migliori giorni di business perché, come è noto, specie nelle città principali dell’Isola, come Londra, Liverpool, Manchester, Birmingham, Brighton, Edimburgo e Belfast, vi è un grande afflusso di turisti provenienti da ogni parte del mondo. Purtuttavia, il calendario nazionale inglese è l’unico al mondo che conservi ancora quest’antica usanza del Venerdì Santo come giorno non lavorativo, perché, nell’originaria intentio cristiana, doveva essere un giorno interamente dedicato alle lunghe liturgie-concerto che avevano luogo nelle Chiese, alle pratiche devozionali e alla visita dei malati della famiglia.
Quel che di autenticamente cristiano permane di questa gloriosa tradizione è relegato nei perimetri sacri di Chiese e di oratori, nonché nelle auguste dimore di moltissime devote Ladies appartenenti alla classe nobiliare, gelose custodi delle tradizioni avite. D’altronde la laicizzazione e la secolarizzazione dei costumi, che ha tolto pregnanza simbolica e religiosa a giorni come questo, ha trasformato un po’ ovunque, nel Vecchio Continente, i giorni del Sacro Triduo Pasquale in meri giorni distensivi del week-end pasquale, da trascorrere magari in SPA o in leggere occupazioni per la mente ed il corpo. Segno inarrestabile, a mio avviso, di un regresso etico-morale insito nel concetto di progresso che tende a livellare tutti i giorni del calendario, riducendoli alla mera dimensione orizzontale del lavoro divertimento, per cui, più o meno consapevolmente, tutti contribuiscono a incrementare il mostruoso impero dei consumi e degli acquisti. Ma soddisfatte con estrema scrupolosità e cura le esigenze del corpo, l’uomo contemporaneo avverte sempre dentro di sé una crescente inquietudine e solitudine, derivanti dal fatto che, avendo falciato via la dimensione verticale, la sua mente inaridita annaspa sulla superficie della dimensione meramente creaturale senza concedersi slanci di spirito, e senza più sfidare le evidenze sensibili osando pensare e pregare una dimensione Altra! 5 S. ROUD, op. cit., p.

Easter contro Cristo? Quale Pasqua?
A conclusione di questo affascinante viaggio lungo i meandri oscuri e “irrazionali” delle credenze popolari britanniche, sorgono alcune inevitabili domande: Easter contro Cristo? Mito contro fede rivelata? Quale è il vero senso della Pasqua “inglese”?
Non esistono risposte esaustive a questi inquietanti interrogativi, che possono solo tematizzare, contestualizzare, se non addirittura problematizzare la persistenza di miti ancestrali e dei loro correlati simbolici lungo il corso dei secoli.
Se le genti britanniche hanno mantenuto intatto il nome della dea Easter al posto di quello cristiano “Pasqua”, significherà pur qualcosa.
Anche se i riti pasquali furono cristianizzati, per l’instancabile opera evangelizzatrice dei monaci benedettini del VI secolo, purtuttavia permane dentro essi un profondo substrato mitico anglo-sassone indelebile e ancora facilmente decifrabile.
Se molti inglesi, in special modo i londinesi, noncuranti delle solenni liturgie che si celebrano nelle loro chiese, preferiscono celebrare la loro Pasqua immersi nella bellezza dei parchi, di cui le loro città sono costellate, significa che il mito di Easter rivive ancora nel “culto” panteistico della rinascita e della natura che si risveglia.
Perché forse, come ha scritto Simonetta Agnello Hornby, «la spiritualità dei londinesi si esprime nei parchi, nell’immenso amore per le piante, nel rispetto della natura e nel continuo sforzo di preservarla e migliorarla. Ogni parco ha il suo posto speciale, una specie di santuario, protetto da una scalinata, da una siepe, uno steccato o un muro, in cui la gente può passeggiare o sedere in silenzio. Può essere un roseto, un prato, una piccola vasca o una fontanella; perfino un’aiuola di piante profumate. Raramente sono vuoti, questi “santuari”; giovani e anziani di tutte le razze e le religioni vi passeggiano o stanno seduti in silenzio, oppure si chinano ad ammirare e annusare i fiori. Nemmeno i bambini fanno rumore. È in questi luoghi che colgo, ogni volta, la religiosità dei londinesi ».
S. ROUD, op. cit., p. 13. 8 S.
AGNELLO HORNBY, La mia Londra, Giunti, Firenze 2014, p. 225.
Gaetano Algozino
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