JOHN KEATS, ARCHETIPO DEL POETA ROMANTICO
Un Nome scritto sull’ Acqua
Cenni biografici: La Vita di John Keats
Non vi è alcuna possibilità di andar oltre Keats.
La sua vita leggendaria presenta il vero archetipo del poeta romantico inquieto e sognatore che muore tragicamente in giovane età. Ma dovremmo, per altro verso, trovare una sorta di equilibrio tra l’uomo il cui epitaffio recita «Qui giace colui il cui nome è scritto sull’acqua» e il poeta maturo che dichiara «Quando morirò, io sarò in mezzo ai poeti inglesi».
E infatti per John Keats, al pari di Byron e Shelley, vita e poesia furono una cosa sola a tal punto che scrisse nel 1817: «Considero che non potrei vivere senza poesia – senza l’eterna Poesia».
La sua vita fu brevissima e intimamente connessa alla sua opera letteraria.
Povera di eventi esteriori o eclatanti, la biografia di John Keats si svolse prevalentemente nell’amatissima Londra, ove nacque il 31 ottobre 1795.
Tre sono i luoghi londinesi che, nonostante i cambiamenti e le trasformazioni inevitabili, celebrano la presenza del poeta romantico e il suo intimo legame con la città: il pub “Keats-The Globe” a Moorgate, nelle cui vicinanze sorgeva la sua casa natale collegata alle stalle Swan and Hoop Livery, non molto distanti dal Finsbury Circus, la casa al 76 di Cheapside, nel cuore della city, ove si stabilì con i fratelli nel 1816 e infine la casa ad Hampstead, delizioso cottage ben preservato con giardino e sede del museo keatsiano, ove il poeta visse a partire dal 1817.
Prima di scoprire la sua vera vocazione letteraria, Keats studiò nel 1815 medicina al Guy’s Hospital a London Bridge (all’epoca periferia di Londra), al cui interno si conserva ancora una statua bronzea in suo onore.
Già l’anno successivo abbandonò gli studi di medicina per dedicarsi interamente alla Poesia.
Nel 1817 pubblicò i Poems e iniziò a scrivere l’Endymion.
Il suo periodo più produttivo, tuttavia, si limita agli anni 1818 e 1819, quando la sua salute gli permise di lavorare costantemente, per la prima e l’ultima volta.
Nel 1818, suo fratello Tom contrasse la tubercolosi, malattia che aveva già ucciso la mamma.
Keats assistette devotamente suo fratello per tutto il corso della sua malattia, sicché questo episodio ci svela la reale e personale chiave interpretativa della sua poesia che agisce come una sorta di argine contro il tempo che fluisce inesorabilmente verso l’abisso della morte.
Lamia, Isabella e La vigilia di Sant’Agnese e altre poesie pubblicati nel 1820 furono scritti tutti durante questo periodo, come anche il primo abbozzo del poema incompiuto Hyperion e La Belle Dame sans Merci.
L’agonia e la morte del fratello Tom furono per Keats una prefigurazione del suo immediato futuro.
Alla fine del 1819 egli cominciò ad avvertire i primi sindromi della terribile malattia del fratello, quella tubercolosi che era la malattia più comune del secolo XIX.
Dopo una serie di terribili emorragie, nel mese di giugno 1820 il medico gli ordinò di trasferirsi in Italia, dove il clima mite gli avrebbe giovato.
Il 18 settembre prese la nave da Gravesend, ed iniziò un lungo viaggio verso l’Italia accompagnato e assistito dall’amico pittore Severn.
Il 19 novembre arrivò a Roma, dove prese casa a piazza di Spagna.
Il 30 novembre scrisse l’ultima lettera a noi conosciuta, indirizzata a C. Brown, in cui, tra l’altro, si legge: «Ho la sensazione continua che la mia vita reale sia già passata, e di star conducendo quindi un’esistenza postuma».
Venerdì 23 febbraio 1821 fu l’ultimo giorno della vita di Keats.
Le ultime parole rivolte all’amico Severn che lo assisteva furono: «Severn, Severn, sollevatemi, sto morendo. Morirò facilmente, non spaventarti. Grazie a Dio è giunta l’ora», poi, più tardi, «Non respiratemi addosso – sembra ghiaccio!». Si spense, consunto dalla tubercolosi, alle 11 di sera.
Il 25 un certo Dr. Clark fece l’autopsia e trovò che i polmoni erano completamente devastati.
Keats fu sepolto il 16 nel Cimitero Protestante di Roma: sulla tomba, secondo la volontà del poeta, sono poste ancor oggi margherite. La notizia della sua morte arrivò a Londra il 17 marzo.

La poetica di Keats
La poesia di John Keats, come è stato giustamente osservato, è la combinazione di due influenze: quella elisabettiana e quella classica.
La fusione di queste due tendenze poetiche crea un linguaggio estremamente prezioso e ricercato, ricco di parole inusuali e di immagini potenti; linguaggio che, nella sua continua mutevolezza lessicale e metrica, sembra volere lanciare un incantesimo sul lettore sia tramite la continua germinazione di immagini che attraverso lo scoccare di una musicalità attraente e inusitata nel corpo vivo del verso.
Per Keats la poesia consiste essenzialmente nella sottrazione dell’Ego.
Essa deve avere un’impersonale qualità da camaleonte che la rende capace di adattarsi totalmente al suo soggetto. Per l’immediata comprensione di questo movimento essenziale della poetica keatsiana, ci pare utile far ricorso ad alcuni passaggi di una sua lettera. «Quando sono in una stanza, in compagnia di altre persone – scrive Keats – l’identità di ognuno nella stanza inizia a schiacciarmi a tal punto che nello spazio di pochissimo tempo io sono annichilito»; in un’altra lettera scrive: «Se un passero si posa davanti alla mia finestra io prendo parte alla sua esistenza e prendo la ghiaia» e infine: «La scorsa notte giacqui sveglio ascoltando la pioggia con la sensazione di essere annegato e marcito come un chicco di grano».
Il poeta è dunque capace di fondersi con i suoi soggetti, trasformarsi in essi e sentire ciò che essi sentono.
Pur tuttavia, il poeta non è soltanto passivo e recettivo, invaso e inghiottito dal cosmo.
La poesia è inoltre un’interiore forza naturale, un’energia che non può essere compressa, sicché: «Se la poesia non viene fuori naturalmente come le foglie da un albero, sarebbe meglio che non venisse fuori del tutto».
Qui Keats non sta parlando tanto del lungo e paziente lavoro tecnico della costruzione di un poema, quanto dell’ispirazione stessa, qualcosa che perviene al poeta in uno stato di semi-coscienza e di veglia, quando non vi è nulla ad interferire con l’assoluta ricettività della sua mente ed egli può liberamente comporre.
L’ispirazione arriva in quel fatidico momento in cui le immagini vengono trasformate in parole, anzi in parola pura, poesis, poesia.
L’intelletto e la ragione sono visti come elementi dirompenti.
Non vi è filosofia o caso che si presentano alla mente del poeta.
La fine e il fine di ogni poesia è la Bellezza che, nella visione platonica, coincide con il Bene e, per ciò stesso, con la Verità.
Ma in Keats la bellezza eterna è prodotta da una abilità negativa – negative capability-, ossia quando un uomo è capace di essere nelle incertezze, nei misteri e nei dubbi senza mai pervenire, in uno stato di insofferenza, alla fede o alla ragione.
A thing of beauty is a joy forever dice Keats, in maniera quasi scultorea, nel primo verso dell’Endymion; così come nella celebre Ode su un’urna greca, dice perentoriamente Beauty is truth, truth is beauty.
Ma questa non è una verità filosofica bensì estetica, alla quale si perviene mediante la spontanea rivelazione della bellezza, così come si esprime il poeta in questi due versi: «Forse che tutti gli incantesimi non volano al mero tocco di una fredda filosofia?» e «La Filosofia bucherà le ali di un angelo». Qui ci sembra di essere molto distanti dalle grandiose costruzioni filosofiche del romanticismo, come anche dalle cosmologie di William Blake, dalla prosa e dai versi filosofeggianti di Coleridge, come anche dal lucido razionalismo dell’ultimo Byron e di Shelley.
Per Keats la poesia è, alla stregua di Novalis, rivelata, è essa stessa Rivelazione; non è un viaggio o l’esito di una lunga ricerca ma una condizione, uno status mentale.
In tal modo Keats può rispondere con quella serenità classica che lo contraddistingueva al grande problema della seconda generazione dei poeti romantici, ossia il conflitto tra desiderio e realtà.
Questo conflitto può essere descritto come una battaglia tra il desiderio per l’eternità e una realtà che è concepita nei termini di tempo e morte. Il desiderio crea la bellezza e la poesia, che a loro volto possono arrestare il tempo e sconfiggere la morte. La bellezza libera si libera dalle leggi della natura congelando il tempo, ed entrando dunque in una dimensione artificiale. Questo è il miracolo del tempo sospeso in cui ogni singolo momento rimane per sempre; il momento riscattato si ha quando il poeta, concedendo il corpo all’illusione, vive nell’eternità.
La Opere di John Keats
Iperione – Hyperion.
Poema epico in versi sciolti scritto nel 1818-19, pubblicato nel 1820, incompiuto.
Giove ha scacciato dall’Olimpo Saturno, re degli dei, e con lui tutte le altre divinità che il poeta chiama, senza distinzione, Titani o Giganti.
A quanto narrano, nel secondo libro, Oceano e sua figlia Climene, i Titani sono stati sconfitti non dalla violenza ma dalla bellezza dei loro vincitori.
Uno solo dei Titani, Iperione, il dio del Sole, conserva ancora il suo regno, ma viene anche lui scacciato dal giovane dio Apollo.
Il poema si interrompe alla descrizione della metamorfosi di Apollo e non si conosce se e quali particolari il poeta avesse ideato per lo svolgimento successivo.
Sembra certo che, nel progetto iniziale, il poema dovesse constare di dieci libri; ma secondo alcuni, il poeta avrebbe, in un secondo tempo, modificato tale progetto, riducendolo a quattro libri.
La parte composta si interrompe al terzo.
Questa parte è sufficiente per comprendere la concezione spirituale che è alla base del poema, specialmente se si raffronta con quella dell’Endimione che è dell’anno precedente.
Dice Keats: «è legge eterna che il primo in bellezza deve essere il primo in potenza».
La bellezza non è qui concepita come cosa esterna ed esornativa, ma come una forza che deriva dal grado di sviluppo raggiunto dallo spirito sulla via della conoscenza.
Questa conoscenza si ottiene solo a prezzo di sforzo e di dolore.
I Titani sono personificazioni delle forze elementari del mondo, ed è vana la loro lotta contro la nuova stirpe di dei la cui supremazia si fonda sopra un principio più alto di forza bruta.
Sintesi drammatica della sconfitta dei Titani è la caduta di Iperione.
Facilmente riconoscibile è l’influsso del Paradiso perduto di Milton; non solo nella costruzione del poema e in talune scene, ma anche nello stile che, rispetto alle opere precedenti, si dimostra capace di una maggiore concentrazione e di un più vigile senso delle proporzioni, che evita il sovraccarico dei particolari, sia pur belli, ricercando, a preferenza, compostezza e sobrietà.
Keats non disponeva ancora di una maturità artistica adeguata all’ambizioso disegno del poema: per questo e per la sua indole, assai più portata alla lirica che non all’epica (le parti migliori si lasciano facilmente isolare e hanno carattere lirico), non è senza significato che il poema, espressione inglese del gusto neoclassico, sia rimasto incompiuto, come è accaduto, in Italia, per Le Grazie di Ugo Foscolo.
Odi – Odes.
Pubblicate nel 1820, insieme a Lamia, Isabella, La vigilia di S. Agnese e Iperione, appartengono quasi tutte all’anno 1819 e rappresentano il vertice dell’arte di Keats.
Nelle Odi si riassume il romanticismo di Keats, il suo slancio ardente verso la bellezza, ricercata nella creazione dello spirito, al di là delle manifestazioni naturali che sono dolorosamente caduche e ingenerano nell’animo la sazietà, la triste voluttà che nasce dalla contemplazione della morte.
Famose sono l’Ode a un usignolo (Ode to a Nightingale), l’Ode su un’urna greca (Ode on a Grecian Urn), l’Ode sulla malinconia (Ode on Melancholy) e All’autunno (To Autumn).
Cronologicamente fu composta per prima la Ode to a Nightingale, pubblicata nel luglio del 1819 sugli Annals of Fine Arts. Scritta dopo la morte del fratello del poeta, Tom, essa è fra tutte la più umana e appassionata.
Ascoltando il canto dell’usignolo, il poeta sogna di fuggire da questo mondo di tristezza e di dolore sulle ali dell’immaginazione e rifugiarsi nel mondo ideale della bellezza, simboleggiato dal canto dell’uccello: quel canto meraviglioso fu udito da tante generazioni passate e sarà il diletto di tante generazioni future e perciò si può considerare il simbolo della bellezza eterna. Ma l’usignolo si allontana e l’incanto è rotto.
Il motivo è ripreso da Keats, con maggiore serenità, nella Ode on a Grecian Urn.
Davanti al bassorilievo di un’urna antica esposta al British Museum il poeta si sofferma affascinato dal mistero delle belle forme fermate nel marmo.
Le figure sono immobili, destinate a rimanere in eterno fissate nei loro gesti di amore, di devozione o di estasi, ma appunto per questo esse sono fortunate: non conosceranno mai le lotte della vita, il tramonto della bellezza, la morte.
Rimarranno immutabili a insegnare agli uomini che la bellezza è una cosa reale e durevole e che la fede nella bellezza è la sola che sia necessaria nella vita.
Famosi i versi: Heard melodies are sweet, but those unheard – Are sweeter (Dolci le melodie udite, ma ancor più dolci quelle non udite). Ma il pessimismo di Keats, che in queste due odi è solo accennato e trova fino a un certo segno compenso nella sua fede in una forma di bellezza capace di sopravvivere alla breve vita umana, si delinea in tutta la sua intensità nella Ode on Melancholy, nella cui ricca armonia circola un senso amaro della realtà, una tristezza profonda.
In tutte le manifestazioni della bellezza eterna il poeta trova una sorgente di dolore: nelle fuggevoli immagini del bello, nella gioia che ci sfugge appena conosciuta, accanto al piacere, ha dimora la malinconia: così è per chi sente intensamente e perciò soffre molto; per chi ama veramente la bellezza che non si lascia afferrare né trattenere.
Ma nell’ode To Autumn, che comincia col famoso verso: Season of mists and mellow fruitfulness (Stagione di nebbia e di matura ubertà), sotto l’influsso dell’eterna e sempre nuova bellezza della natura, lo spirito del poeta si rasserena: egli sente che il bello, cui aspira la sua anima, non è poi tanto effimero, che una volta veduto e afferrato dall’uomo esso rimane in suo possesso per sempre.
Altre due Odi si possono ancora ricordare tra le più belle di Keats: Fancy e Ode to Psyche.
Nell’Ode alla fantasia (Fancy) il motivo preferito del poeta è ripreso ancora, benché, con un tono più leggero.
Tutte le cose reali, anche le più belle, hanno perduto per lui ogni attrattiva, egli perciò esalta la fantasia che permette di sfuggire alla realtà; che nulla, né il luogo né la stagione può trattenere nella sua continua ricerca di gioie nuove. L’Ode a Psiche è un appassionato inno alla bellezza, personificata in Psiche, è un canto pagano, caldo e sensuale, che il poeta eleva a ciò che fu il pensiero costante, il culto supremo della sua breve vita.
Prendendo lo spunto dalla leggenda di Psiche, la cui bellezza conquista lo stesso dio dell’Amore e che viene perciò accolta tra gli immortali, e dal fatto che Psiche fu annoverata fra gli dei solo in un periodo assai tardo del paganesimo, sicché ella non venne mai adorata con l’antico fervore, Keats le promette che, se in passato fu negletta, egli la compenserà con la sua devozione.
Nel complesso queste Odi sono inni alla bellezza.
In esse Keats ha trasfigurato in poesia il suo pensiero filosofico, già posto alla base di altre sue opere.
La bellezza, che è tutto ciò che abbiamo bisogno di conoscere, assume tutto il valore dell’ethos e si avvia a comporre, per il poeta, una visione integrale della vita e del mondo.
La straordinaria ricchezza e scioltezza del linguaggio, che nelle Odi sono carattere saliente, si sentono nate non dalla preziosità di una ricerca a freddo, ma da un gusto e da un nutrimento letterario (Keats si rifece soprattutto a Shakespeare) assimilati fino a divenire la sostanza stessa dello spirito: tanto che proprio in queste Odi il poeta arriva ad una concisione e sobrietà da lui mai raggiunte prima.
Ogni aggettivo è scelto con rara sicurezza, e la viva sensualità che dà corpo alle immagini resta, alla fine, riassorbita nell’intenso afflato spirituale che anima il poeta.
Osteggiato in vita per il suo oltraggioso verseggiare da cockney, John Keats ebbe sempre molti imitatori, ma la maggior parte di essi ebbero più successo per una certa lussuria esornativa che non per la ricchezza profonda del linguaggio poetico così adatto ad esprimere la bellezza dei suoi versi.
Per la sua ostinata ricerca sensuale della bellezza poetica, Keats fu più preoccupato di far emergere gli aspetti esteriori dei suoi soggetti che non la sua stessa vita interiore, che avrebbe potuto essere ancor più sontuosa ed attraente se non fosse stata divelta alla radice dal fulmine della malattia.
La sua brevissima vita, fragile e lucente come un cristallo, può essere compendiata con quel famoso verso dell’Ode On Seeing the Elgin Marbles: «Ed egli si sciolse nel suo sogno – come la rosa che mischia il suo profumo con la viola» (Into her dream he melted, as the rose blendeth its odour with the violet).
Gaetano Algozino Kidbrooke Village, 08-06-2020
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