Letteratura inglese

JAMES JOYCE

JAMES JOYCE. L’EPIFANIA DI UN LINGUAGGIO ALTRO

Biografia di un uomo in “esilio”
Anche ad uno sguardo affrettato o poco propenso a coglierne le intime connessioni tra la sua vita e la sua carriera letteraria, l’intera biografia di James Joyce ci appare attraversata dal file rouge del perpetuo esilio di un uomo che, come l’ebreo errante, trova proprio nello sradicamento policentrico, in una radice errante e nomade, sia la sua patria che il principium individuationis di tutta la sua complessa produzione letteraria.
Nato il 2 febbraio 1882 a Rathmines, un quartiere periferico di Dublino, James Joyce fu il secondogenito dei dieci figli di John Stanislaus Joyce e di Mary Jane Murray.
L’ambiente era quello della piccola borghesia irlandese, grazie all’attività del padre, esattore delle imposte, e di qualche rendita fondiaria.
John Stanislaus, uomo di grande vivacità ma alquanto disordinato nella sua esuberanza, al quale Joyce rimase sempre legato scorgendo in lui un autentico dublinese ed ereditandone molti tratti del carattere, dilapidò le sostanze familiari. Così Joyce, dopo un’infanzia tranquilla, subì le conseguenze dei travagli economici del padre, inseguito dai creditori e costretto a precipitosi traslochi notturni.
James Joyce nella letteratura ingleseNe risentì il suo corso di studi, iniziato nel 1888 al prestigioso Clongowes Wood College, proseguito nel 1893 al più modesto Belvedere College, sempre a Dublino, e concluso alla cattolica University College, dove si laureò nel 1902. Nel frattempo, e precisamente nel 1887, i Joyce si erano trasferiti a Bray, una cittadina sul mare presso Dublino.
Le scuole frequentate da Joyce erano rette dai Gesuiti, ciò che lasciò tracce non indifferenti nel suo retroterra culturale e nella stessa definizione della sua estetica, ove alcuni principi riecheggiano le formulazioni di San Tommaso d’Aquino, in particolare i concetti di interezza, armonia e splendore, illustrati da Stephen Dedalus nel A Portrait of the Artist as a Young Man.
In effetti, all’iniziazione subita nei collegi gesuitici Joyce reagì polemicamente, additando nella Chiesa cattolica un fattore decisivo nel fornire alla società borghese le sue norme di comportamento anguste e soffocanti, il suo immobilismo ormai sclerotizzato – la paralisi, tema che percorre Dubliners – e dunque, ciò che più riguarda l’artista, una retorica ossificata che conduce alla mortificazione della pratica creativa.
In un ambiente culturalmente provinciale come quello dell’Irlanda all’inizio del Novecento, il giovane Joyce cercava orizzonti più ampi: così, i suoi interessi spaziavano da Aristotele, Omero, San Tommaso d’Aquino, agli elisabettiani, studiati a scuola, ai romantici inglesi, specie Coleridge e Shelley, con i dilemmi di un io positivo che si scontra con la negatività e il caos, al modello diretto dell’estetismo, con Pater (al quale egli deve almeno in parte il concetto di epifania), a Moore – egli pure irlandese –, ai simbolisti europei, senza contare il rapporto con il conterraneo Yeats (nato nel 1865).
Né si deve trascurare, nel quadro del fervido eclettismo di Joyce, l’ammirazione per Ibsen, significativa tenuto conto della funzione di rottura a quei tempi esercitata dal drammaturgo norvegese, testimoniata dall’articolo Il nuovo dramma di Ibsen, pubblicato nel 1900 dal The Fornghtly Review, segnando il suo esordio di critico letterario, e che gli valse il riconoscimento dello stesso Ibsen.
Parallelamente, Joyce rivelava la sua insofferenza nei confronti del nazionalismo irlandese, la cui atmosfera aveva respirato in famiglia, dato che il padre era stato un protetto di Charles Stewart Parnell, capo carismatico del nazionalismo.
Negli anni dell’università il rifiuto di Joyce di firmare una lettera ostile a Yeats per il suo dramma The Countess Cathleen, ritenuto offensivo per l’Irlanda dagli studenti nazionalisti, aveva fatto intendere questo suo atteggiamento, che si trasferisce in Gente di Dublino nell’ironia di Il giorno dell’edera.
Maturava in Joyce un desiderio intenso di evasione, premessa all’esilio volontario che sarebbe stato più avanti una scelta definitiva. Verso la fine del 1902 egli si trasferì a Parigi, ma ritornò a Dublino dopo quattro mesi per la malattia della madre, che morì nel 1903.
Nel 1904 Joyce cominciò a scrivere molte delle poesie pubblicate poi nel 1907 con il titolo di Chamber Music; pubblicò, con lo pseudonimo Stephen Dedalus, il racconto The Sisters che aprì poi Gente di Dublino; compose un ampio saggio autobiografico, A Portrait of the Artist as a Young Man, successivamente decidendo di estenderlo in un romanzo, Stephen Hero, di cui è rimasto soltanto un lungo frammento pubblicato postumo nel 1944 e nel 1963. Nello stesso anno conobbe Nora Barnacle, cameriera in un albergo di Dublino, con la quale fuggì a Zurigo, trasferendosi in seguito a Pola e a Trieste, dove insegnò inglese alla Berlitz School e conobbe e frequentò Italo Svevo e Silvio Benco.
A Trieste nacquero, nel 1905 e nel 1907, i figli Giorgio e Lucia. Tra il 1906 e il 1907 Joyce trascorse un breve e infelice soggiorno a Roma lavorando in banca, per ritornare a Trieste fino al 1915.
In questo periodo, tra il 1909 e il 1912, Joyce si recò in Irlanda tre volte, e i soggiorni furono complicati dalle vicissitudini legate alla pubblicazione di Dubliners.
Dapprima l’editore la ritardò con vari sotterfugi; poi le copie già pronte furono distrutte sotto l’accusa di immoralità e di offesa all’Irlanda.
Joyce lasciò Dublino e non ritornò mai più in patria: Gente di Dublino apparve soltanto nel 1914.
Intanto Joyce scriveva A Portrait of the Artist as a Young Man, uno dei libri cruciali del Novecento, figurazione e autobiografia dell’artista che racconta e insieme fissa il proprio ruolo oggettivo nei rapporti con il mondo e la realtà unica a contare, quella cioè delle sue ragioni creative.
Ne presentò il primo capitolo la rivista The Egoist di Londra, grazie all’appoggio dell’amico Ezra Pound, mentre il volume uscì nel 1916.
Nel 1915 Joyce si trasferì ancora a Zurigo con la famiglia: le vicende della guerra coinvolgendo lui che aveva posto al centro della propria esistenza l’arte, quasi ricusando l’intrusione della storia, mentre la storia tragica del suo tempo era destinata a segnarlo profondamente. Nel 1918 veniva pubblicato il dramma Exiles, ma già dal 1914 Joyce lavorava a Ulysses, del quale iniziò la pubblicazione a puntate nel 1918 sulla Little Review di New York e che, nella sua forma definitiva, apparve in volume nel 1922 a Parigi, stampato dalla Shakespeare & Company, la libreria di Sylvia Beach, ritrovo consueto della cultura d’avanguardia.
Dal 1920 Joyce si era stabilito a Parigi, dove rimase vent’anni: era ormai uno scrittore affermato, amico di T. S. Eliot, di Hemingway, di Fitzgerald, dell’autorevole critico francese Valéry Larbaud.
Nel 1927 uscì la raccolta Poems Penyeach (Poesie da un soldo), mentre Joyce lavorava almeno dal 1923 all’immenso progetto conosciuto in un primo momento come Work in Progress, pubblicato nel 1939 dopo che ne erano apparsi qua e là frammenti, che si chiamerà Finnegans Wake (La veglia di Finnegans): storia di una famiglia comune divisa tra realtà e sogno, summa delle vicende dell’uomo, epica di ognuno e di tutti, frantumazione e ricomposizione sia sul punto strutturale sia su quello linguistico, spinto a un vertiginoso rimescolamento dei segni, vera e propria colonna d’Ercole della narrativa moderna, tale da abbagliare ma anche sconvolgere e respingere molti tra coloro – ad esempio Ezra Pound – che avevano sostenuto e ammirato Joyce.
La follia della figlia, la grave malattia agli occhi che lo rese quasi cieco, turbarono gli ultimi anni di vita di Joyce.
Con i figli, con Nora, che aveva sposato nel 1931 per ragioni pratiche, riparò a Zurigo dopo l’invasione della Francia da parte delle armate naziste, e qui morì il 13 gennaio 1941 dopo un’operazione di ulcera.
Il critico letterario canadese Hugh Kenner (1923-2003) ci ha lasciato un gustoso apologo su Joyce e sul suo complesso e irrisolto rapporto con l’Irlanda: «Uno degli studenti di lingua di Joyce a Trieste lo ricorda mentre fissa un fermacarte di vetro, di quelli che contengono dei cristalli fluttuanti, e mormora: “Sì, la neve è comune in tutta l’Irlanda”. La neve è continuata a cadere e l’Irlanda ha continuato ad essere paralizzata, nella mente di Joyce, per tutta la vita».

Dubliners: Gente di Dublino

La presentazione più limpida di Gente di Dublino si trova in una lettera di Joyce all’editore Grant Richards, in data 5 maggio 1906:
«La mia intenzione era di scrivere un capitolo della storia morale del mio paese e ho scelto Dublino come scena perché quella città mi pareva essere il centro della paralisi. Ho cercato di presentarla al pubblico indifferente sotto quattro dei suoi aspetti: infanzia, adolescenza, maturità e vita pubblica. I racconti sono posti in quest’ordine. L’ho scritto per la maggior parte in uno stile scrupolosamente povero e con la convinzione che è un uomo audace colui che osa cambiare nella presentazione, e ancor più deformare, qualunque cosa abbia visto o udito».
Queste osservazioni completano ciò che, più sinteticamente ma altrettanto significativamente, Joyce aveva scritto in una lettera precedente del luglio 1904, a C. P. Curran:
«Sto scrivendo una serie di epicleti – dieci – per un giornale. Ne ho scritto uno. Chiamo la serie Gente di Dublino per smascherare l’anima di quella emiplegia o paralisi che molti considerano una città».

Opere di James Joyce

Troviamo qui alcune chiavi interpretative essenziali per Gente di Dublino, oltre al senso da dare alla disposizione dei quindici racconti, che non furono scritti nell’ordine in cui vennero poi disposti, a conferma di un disegno compatto e organico.
Da un lato, si identifica la resa apparentemente naturalistica dei racconti, una dimensione che fu privilegiata dai primi recensori e che sembrò anche a critici e studiosi qualificati la nota dominante del libro.
Dall’altro, la misura simbolica, che la critica più recente ha sottolineato e enucleato sottilmente pur se talora con qualche forzatura, viene indicata esplicitamente dallo scrittore, il quale insiste sul simbolo unificante di Gente di Dublino, vale a dire la paralisi.
Infine, lo sviluppo graduale – infanzia, adolescenza, maturità e vita pubblica – prende corpo con tutta evidenza, sanzionato tra l’altro dal mutamento del punto di vista, ove si tenga presente che i primi tre racconti sono affidati alla prima persona narrante, e i successivi alla terza: l’io dell’autore quasi si congeda infatti al termine di Arabia confessando vigorosamente una presa di coscienza, un trapasso, una maturità acquisita nella negatività, scandita nell’originale da due fortissime endiadi allitterate – driven and derided , anguish and anger –, la seconda delle quali chiude il racconto.
Ma Joyce fornisce un’altra indicazione preziosa quando parla di epicleti, attingendo a una terminologia familiare per lui che aveva studiato in scuole cattoliche: l’epiclesi è infatti, nella liturgia della Chiesa orientale, l’invocazione dello Spirito Santo perché attivi la transustanziazione dell’ostia; dunque, sul piano letterario, e secondo il chiarimento di Giorgio Melchiori, «non illuminazioni momentanee ma rivelazioni della natura interiore e segreta di una situazione o di un luogo che abbiano continuità nel tempo e nello spazio».
Joyce esperimenta qui l’epifania, l’illuminazione momentanea, che si definirà poi nel Ritratto ed è un punto di passaggio obbligato nella sua opera, ma già viene spiegata in Stefano eroe come «una improvvisa manifestazione spirituale, nella volgarità del discorso o del gesto o in una fase memorabile della stessa mente», e che «l’uomo di lettere deve registrare con cura estrema», giacché si tratta dei «più delicati e evanescenti dei momenti». L’epifania è rivelazione oggettiva, indiretta, non interpretazione.
Siam ben lontani, come si nota, da una rappresentazione puramente e semplicemente naturalistica di un discepolo di Flaubert o di Maupassant, anche se quei modelli erano ben presenti, non meno delle impalpabili atmosfere cechoviane, al giovane Joyce.
Vale a dire che lo scrittore parte dal dato immediato, concreto, trascritto nella sua immediatezza, per organizzarlo in una visione più ampia, nella rappresentazione di un mondo degradato, nell’impulso reattivo che si prova rispetto ad esso, nella sua denuncia ora partecipatoria ora distaccata a seconda del grado di presa di coscienza che se ne acquista, proprio in virtù delle epiclesi e delle epifanie, degli attimi di rivelazione. Di conseguenza, e secondo un dato corrente della narrativa modernista, la situazione prenderà il sopravvento sulla trama intesa in senso tradizionale, mentre lo scrittore si dovrà avvalere di un mezzo espressivo “povero”, della banalità, del materiale che egli si trova a maneggiare e su cui non deve né vuole imporsi. Di qui, come è stato giustamente posto in rilievo, l’inizio di Evelina con gli stereotipi dei romanzi rosa che la protagonista legge, l’immediatezza dei dialoghi, l’attento uso delle pause, e ciò nel quadro di una crescente varietà di orchestrazione, che culmina nel racconto più ampio e complesso della raccolta, The Dead (I Morti), anello di congiunzione con il Ritratto e con l’Ulisse.
La paralisi, la morte in vita, investe la sfera morale, intellettuale, ma anche quella pratica, e contiene nel suo nocciolo lo straniamento e l’alienazione, in Gente di Dublino tipicamente urbana, il fallimento dell’io postromantico in conflitto con se stesso e con la scorza dura di una realtà raggelante nelle sue categorie di stolido comportamento, di mistificazione, di gestualità conformistica.
L’individuo ne può rimanere vittima anche fisicamente, come accade a Padre Flynn in The Sisters, o mentalmente, come per Evelina, incapace di attuare la sua scelta liberatoria e cosciente di questa impossibilità.
Ma l’epifania, la rivelazione della paralisi, può condurre a una conquista di identità, ove si colloca la fine del lungo viaggio di ricerca (un motivo ricorrente nel libro): in questo caso Dedalo, figura mitica centrale del Ritratto, riuscirà a venir fuori dal labirinto, che è labirinto della mente. Padre Flynn è soggiaciuto alla paralisi, e un simbolo, il calice vuoto e spezzato, emblema presente sul suo petto nella bara, lo testimonia, senonché l’io del fanciullo che aveva ricevuto da lui un’iniziazione alternativa alla famiglia, lo comprende.
Lo spiraglio, il rapporto sembrano negati in un Incontro, mentre in Arabia l’iniziazione all’adolescenza si sviluppa in base a una serie di inganni, di ideali fittizi e convenzionali, di distorsione della realtà addirittura ritualizzata, scambiata con il sogno: l’avvento della maturità scompagina ogni possibile idealizzazione, passando dal paradiso del sogno all’inferno della realtà.
Talora le vittime della paralisi si illudono di conquistarsi almeno un ritaglio di libertà, e il simbolismo di Joyce si spinge sul terreno dell’esercizio dei peccati capitali, tra lo squallore delle occorrenze più banalmente ordinarie e l’ironia. Così, in I due galanti, dalla lussuria, in apparenza attiva e a suo modo concretamente godibile, ma della quale i due non più adolescenti personaggi sono prigionieri, si rovescia nella contropartita speculare quanto sordida dell’avidità. Analogamente, nel microcosmo squallido della Pensione di famiglia prevale la strategia del calcolo e dell’interesse piccolo borghese, tra l’avidità della madre – a sua volta vittima di un matrimonio fallito – e del pensionante dal debole carattere e dai meschini orizzonti, caricatura di Romeo dalle mezze maniche.
Non stupisce che Il giorno dell’edera fosse il racconto preferito da Joyce tra i quindici dei Dubliners.
Qui la rappresentazione fattuale, lo studio d’ambiente e il disegno simbolico si fondono con singolare pregnanza, mentre interagiscono specularmente il livello serio e quello acremente ironico.
Il Tindall ha notato giustamente che soltanto nell’episodio dei Ciclopi in Ulisse Joyce ha espresso con altrettanta efficacia il suo amore e il suo disprezzo per la Dublino microcosmo ed epitome del mondo.
Tra bevute di birra e discorsi insulsi si dipana una realistica tranche de vie quotidiana, colta nelle pieghe del dialogo, nelle sue modulazioni più concrete e dirette.
Pure, se i personaggi rivelano qui insieme le loro storie personali e la storia d’Irlanda, in una serie di ritratti a tutto tondo, in un contesto che trasuda disintegrazione, perdita di valori, e in certa misura cinismo, ma appare al tempo stesso intriso di ribalda parodia, il disegno simbolico risulta essere del tutto evidente.
Il vecchio Jack, emblema della decadenza, tenta invano di scaldare la stanza rimestando i tizzoni; Henchy sta per l’ipocrisia e la doppiezza; Padre Keon rivela tutta la miseria di un clero politicamente corrotto e tutti, fuorché lui, portano all’occhiello l’edera, che hanno in qualche modo tradito slavo Hynes.
Forse la stanza del comitato rappresenta simbolicamente l’inferno; sicuramente la chiusa del racconto, l’epifania, fa balzare l’immagine di Parnell morto quale Cristo tradito, al quale Hynes dedica la sua poesia magniloquente ma sincera, testimonianza di un empito sentimentale che non trova più alcun riscontro nei tempi. Anche questa volta la paralisi ha partita vinta.
Con la grazia di Dio ci consegna una vera e propria allegoria, costellata di simboli, e Stanislaus Joyce assicura che questa era l’intenzione professata dal fratello. Anche qui Joyce colloca in un ambiente mosso e realistico una parodia amara e beffarda.
Lo schema – peccato, pentimento e riscatto – riproduce l’itinerario dantesco di Inferno, Purgatorio e Paradiso, sconsacrandolo e parodiandolo, come avverrà in Ulisse.
Ma Inferno (ridotto al livello delle latrine dei bar) e Paradiso non sono troppo distanti: si può ricavare il massimo da entrambi, tanto più che il secondo (la Chiesa cattolica, con la sua capacità di condonare e di comprendere così come la presenta senza abbandoni metafisici il sanguigno e vitale Padre Purdon nel sermone che pare a sua volta una parodia) ha davvero braccia molto larghe. E dunque il rituale della comunione celebrata con il whisky non sembra affatto fuori luogo.
La cupa paralisi della Dublino joyciana si distende qui nel comico e nel grottesco.
I Morti, scritto per ultimo e sostenuto da un’articolazione assai più ampia e compiuta dagli altri racconti, riepiloga Gente di Dublino coerentemente ma possiede una sua precisa autonomia, quella di uno dei racconti lunghi esemplari in assoluto del Novecento.
Favola, parabola, storia simbolica, ritratto di ambiente, nella cornice di una festicciola domestica di Capodanno.
Di Gabriel Conroy, il protagonista, sono state date interpretazioni spesso divergenti.
Secondo alcuni, egli appare come una sorta di doppio dello stesso Joyce, come lui letterato, insegnante, recensore per un quotidiano, marito possessivo di una donna di estrazione inferiore.
Altri pensano che Joyce abbia presentato in Gabriel un individuo mediocre, velleitario, chiuso nel proprio egoismo, arrogante, paternalista, nei confronti della moglie ma, già fin dall’inizio, della modesta e innocente Lily. Indubbiamente, Gabriel si sente orgoglioso protagonista della serata: a lui spetterà di tagliare ritualmente l’oca arrosto, a lui di tenere il discorso accuratamente preparato, e degno di chi ha scritto una recensione alla poesia di Browning. Ma il paradosso vuole che tutto questo accada in un mondo chiuso, parassitario, spento.
Giusto il titolo del racconto, tutti sono umanamente e spiritualmente morti nella cerchia che festeggia il Capodanno. Di più: i vivi sembrano coesistere con i morti, e in particolare con l’ombra di Michael Furey, l’infelice amante di Gretta, moglie di Gabriel, consumatosi infelicemente per lei e la cui evocazione lo rende terribilmente vivo e visitatore del mondo dei vivi.
Nel momento in cui Gabriel dovrebbe legittimare il suo trionfo, e trasferirlo nel suo rapporto con la moglie, l’ombra di Michael Furey gli si para dinnanzi, rivelandogli che non esiste diaframma tra la vita e la morte, e costringendolo a pensare al viaggio ormai maturo verso l’ovest.
In altre parole, si intacca il suo isolamento e si attua la sua amara presa di coscienza, sanzionata dalle lacrime.
Il reticolo simbolico diviene a questo punto lampante. Lily, giglio, bianco come la neve, rimanda ai riti funerari e alla Pasqua di risurrezione, oltre ad essere l’emblema dell’arcangelo Gabriele, mite quanto Michele (Michael Furey) è l’arcangelo passionale. La neve, che copre Dublino e l’Irlanda, accomuna i vivi e i morti, il presente e il passato, il naturale e il soprannaturale: ecco allora spezzato, come ha scritto Anthony Burgess, il velo spazio-tempo, e rivelata una verità suprema.
L’epifania finale di Gabriel, il suo mancato trionfo, la sua frustrazione, lo portano in realtà alla comprensione di quella verità, al rapporto tra l’essere e il nulla, tra la realtà e il sogno. Tale comprensione spetta a un modesto intellettuale di provincia, a un moderno anti-eroe, liquidando quindi il mito romantico dell’eletto, con il suo prometeico soggettivismo e la sua eroica solitudine.
Ma I Morti, nella fusione di immagine e oggetto, è in primo luogo una metafora suprema dello scrivere, del valore enigmatico e insieme disvelatore dell’arte, del primato della parola, la “musica tormentata del pensiero”, secondo la definizione di Gabriel che preannuncia la “musica delle idee” teorizzata da Joyce per La veglia di Finnegan.
La rivelazione finale offerta da Gabriel è il sigillo bifronte, consolante e sconvolgente di Gente di Dublino: il dono inquietante di una presa di coscienza e della possibilità o capacità dello scrittore di testimoniarla.
Come ha scritto Umberto Eco nel suo saggio Le poetiche di Joyce (Milano, 1966): «ciascuna novella di Gente di Dublino appare in fondo come una vasta epifania, o comunque il disporsi di eventi che tendono a risolversi in un’esperienza epifanica: ma non si tratta più di una annotazione rapida e passeggera, un rapporto quasi stenografico di esperienza vissuta. Qui il fatto reale, l’esperienza emotiva, vengono isolati e “montati” mediante un’accorta strategia di mezzi narrativi, situati nel punto culminante del racconto, in cui essi diventano climax riassunto e giudizio sull’intera situazione.
Così le epifanie dei Dubliners appaiono come momenti chiave, acquistano un valore di emblema morale, di denuncia di un certo vuoto o inutilità dell’esistenza».

Ulysses

Pubblicato in volume a Parigi nel 1922, l’Ulisse rappresenta uno dei più smisurati assunti che si conoscano di letterato moderno. Seguendo fedelmente la traccia dell’omerica Odissea, considerata un grande viaggio sperimentale nel mondo antico, Joyce fa percorrere in lungo e in largo ai suoi due personaggi una grande città moderna, Dublino, che può dare una sintesi materiale e spirituale del mondo di oggi.
Dei due personaggi, uno, il maturo Bloom, trafficante semita vagabondo, sarebbe l’Ulisse del poema, e l’altro, il giovane intellettuale Stephen Dedalus, in cui si può ravvisare lo stesso Joyce, sarebbe il Telemaco.
I due personaggi sono complementari, e lo riconoscono incontrandosi.
Bloom, in cui tutto si riduce a emotività sensuale, a pratica esperienza e a frivola curiosità, finisce col prendersi in casa Dedalus, l’inquieto intellettuale, cupido di tutte le astratte curiosità della mente.
L’uno cercava chi potesse sostituirgli un figlio che gli è appena morto fanciullo; l’altro cercava un padre in cui potessero equilibrarsi i suoi scompensi mentali.
Le avventure che conducono alla fusione di codesti due uomini si svolgono nel giro di una giornata, dall’alba alla notte: ogni ora ha il suo episodio, e corrisponde a un canto dell’Odissea.
Ogni episodio ha il suo centro di sensazioni in una parte del corpo umano, cervello, orecchi, naso, stomaco, intestino e via via più in basso; ogni episodio è anche contraddistinto da un simbolo (erede, cavallo, affossatore, editore, vergine, madre, prostituta, terra), e in ciascuno di tali momenti è considerata una singola attività dello spirito e dei sensi, con mutamenti di linguaggio e di stile conforme all’argomento, ai personaggi introdotti e alla situazione. Si va così dalle meditazione di Stephen sulla spiaggia, all’analisi dei pensieri e delle immagini di Bloom in un bordello, all’ultimo monologo interiore della moglie di Bloom.
In Ulisse, Joyce rompe audacemente il precetto dell’unità stilistica, salta dal poetico al filosofico e da questo al grottesco, e adopera l’inglese di varie epoche, inserisce in esso vocaboli e locuzioni delle molte lingue da lui conosciute e perfino di dialetti, anche italiani.
Un critico opinò pertanto che il linguaggio fosse il vero protagonista del romanzo di Joyce.
E non andò lontano, per lo meno da quanto si agitava nella mente dello scrittore, giacché gli ultimi vent’anni della sua vita furono poi dedicati a un’opera che egli chiamava Work in Progress uscita come Finnegans Wake in cui grande parte hanno le ricerche sul linguaggio.
Appoggiandosi sulla teoria freudiana degli interventi del subcosciente, che fanno pronunciare una parola per l’altra e talora confondere quella che si voleva pronunciare e quella che il subcosciente suggerisce, Joyce introdusse nel linguaggio una quantità di vocaboli in questo modo composti e che esigono un vocabolario speciale per essere compresi.
Nell’ultimo suo libro Joyce andò dunque molto al di là dell’Ulisse e non solo in questa patologia del linguaggio, ma anche nel simbolismo poetico desunto dal noto simbolismo dei sogni che fa parte della dottrina di Freud. Nell’Ulisse la psicologia freudiana, benché possente sull’animo dell’autore, non è spinta però e a queste estreme conseguenze. Armonizza tuttavia con tale psicologia l’uso sistematico del “monologo interiore”, che tanto colpì i critici nel romanzo-poema di Joyce e tanto fu imitato in tutte le letterature.
L’idea prima di questo monologo era venuta a Joyce da un romanzo del francese Dujardin, pubblicato nel 1887, quando di Freud ancora non si parlava.
Nell’Ulisse il monologo interiore, ossia l’incessante discorso che l’uomo, vivendo, tiene a se stesso, ha una sua disordinata continuità anche nel sogno: onde il celebre ultimo capitolo, dove la moglie di Bloom rumina i suoi confusi pensieri dormendo, e la prosa non ha né periodi né interpunzioni, ma è come uno scorrere gorgogliante di parole e di sentimenti in un’oscura gora.
Nel campo della tecnica letteraria si può dire che Joyce, nell’Ulisse, abbia osato portare il linguaggio a dimensioni totalmente sconosciute aprendo le porte ad un meta-linguaggio non concettuale, dal vago afflato mistico.

Gaetano Algozino Leonforte (En), 10 giugno 2021

 

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