George Herbert e il suo “Tempio”.
La voce mistica di un poeta cristiano nell’Inghilterra barocca.
Spesso compresa e quasi “compressa” fra i due giganti Thomas Hobbes e John Milton, la figura di George Herbert è stata per lungo tempo quasi dimenticata o messa nell’ombra dalla critica storica, sebbene la sua opera abbia esercitato una vasta e duratura influenza nella cultura religiosa e popolare dell’Inghilterra anglicana.
Nato a Montgomery (Galles) nel 1593 da una ricca famiglia di artisti, Herbert ricevette in gioventù una eccellente educazione culturale presso la Westminster School che gli permise di poter essere ammesso nel 1609 come studente al Trinity College di Cambridge, ove egli si distinse particolarmente nello studio delle lingue antiche, della retorica e della musica.
Iniziò poi gli studi universitari col proposito di accedere al sacerdozio anglicano, ma quando diventò pubblico oratore dell’Università attrasse talmente l’attenzione di Re Giacomo I che questi lo volle accanto a se come Segretario di Stato. Nel 1624-25 egli ebbe prestigiosi incarichi nel Parlamento; al sopraggiungere della morte di Re Giacomo I, si rinnovò in lui l’antico e mai sopito desiderio di diventare prete. Intorno ai trent’anni, abbandonate tutte le sue ambizioni umane, ricevette gli ordini sacri nella Chiesa di Inghilterra trascorrendo il resto della sua vita come Rettore della piccola chiesa parrocchiale di Sant’Andrea a Lower Bemerton, presso Salisbury. Herbert si distinse in maniera del tutto ammirevole ed infaticabile nella cura attenta ed amorosa dei suoi parrocchiani, in particolare nei confronti di ammalati, poveri, disperati e senza tetto.
Morì il 1 marzo 1633 alla giovane età di 39 anni consumato dalla tubercolosi.
Lungo tutto l’arco della sua esistenza, Herbert compose poemi religiosi caratterizzati da precisione linguistica, versatilità metrica, e da un ingegnoso uso dell’immaginazione concettuale favorito dalla conoscenza diretta dei poeti metafisici, in primis John Donne. Charles Cotton descrisse Herbert come una privilegiata anima composta di armonie celesti, Henry Vaughan parlò di lui come di un grandissimo santo e di un profeta chiaroveggente, mentre la Fondazione Herbert lo ha recentemente definito come una “figura centrale, enormemente popolare, profondamente e largamente influente, e plausibilmente il più qualificato e importante dei poeti devozionali inglesi”. Alcune delle poesie di Herbert entrarono presto nel repertorio popolare degli inni della Chiesa d’Inghilterra: ricordiamo, tanto per citarne alcuni, King of Glory, King of Peace, Let All the World in Every Corner Sing e Teach me, my God and King.
Izaak Walton, primo biografo di Herbert, scrisse che egli componeva inni ed antifone come se egli stesso e gli angeli cantassero contemporaneamente nei cieli.
Al di là delle entusiastiche considerazioni e dei lusinghieri giudizi dei contemporanei, la poesia di Herbert può essere a buon diritto definita come una cascata in piena e fluttuante di temi irti e
complicati che sviluppano, come in un gioco di specchi semantici, gli antichi temi della fede biblicocristiana declinati con una sensibilità barocca che spesso sconfina nel parossismo e nell’immagine ossimorica. La sua vivacità intellettuale, se a volte può indulgere ad un lavoro cerebrale, è però sapientemente bilanciata dalle sue profonde virtù cristiane incarnate in un vissuto etico davvero esemplare, sicché si può affermare con Richard Baxter che “Herbert parla a Dio e di Dio come uno che realmente crede in Dio, e il cui unico e altissimo impegno nel mondo è servire Dio. La sua opera è così composta da un mirabile intreccio di lavoro di cuore e lavoro di cielo!”. Herbert è un’affascinante e insolita figura della storia letteraria inglese, la cui vita di silente e appartato eremita cultore della parola avrà una vastissima eco in epoca romantica. Egli compose numerose opere in latino, greco e certamente l’opera che gli ha valso l’ingresso nella letteratura inglese è The Temple. Sacred Poems and Private Ejaculations, pubblicata postuma a Cambridge nel 1633. Questa raccolta di poesie religiose è divisa in quattro parti:
Dedica, Il Portico della Chiesa, Superliminare, La Chiesa. Delle prime tre la più importante è la seconda, dove,
in 77 sestine, si danno precetti per tutto un programma di vita morale. Dopo essere stato edotto in tal modo, il lettore è invitato, nel Superliminare, a gustare del mistico pasto della Chiesa, ammannito nella lunga quarta parte. Vi si toccano i più svariati soggetti religiosi: le virtù, le prove diversissime alle quali è sottoposto un cristiano, i sacramenti, la provvidenza, la santità dei giorni festivi, sino alla Morte, all’Ultimo giorno, al Giudizio finale, al Cielo e all’Amore.
Si incontrano nel Tempio i metri più diversi: ma ciò che più maggiormente attira l’attenzione sono i concetti che affiorano inesauribili in ogni composizione. Herbert, insieme con Crashaw e Vaugham, appartiene a quegli scrittori religiosi del secondo quarto del sec. XVII, che, staccandosi dalla scuola di carattere spenseriano, seguono la nuova via tracciata da John Donne, il capo della scuola metafisica. Egli tocca talvolta la stravaganza: in The Altar, per esempio, i versi sono disposti in forma di altare. In questa poesia, come anche in Easter Wings le parole, disposte in un pattern poem, non solo sono funzionali alla lettura ma creano anche una forma visiva, quasi scultorea, che richiama il concetto segretamente inscritto in esse.
L’immagine dell’altare, estrapolata dal Salmo 50 (51), è usata come potente metafora di ciò che realmente l’uomo significa ed è di fronte a Dio: un’offerta sacrificale gradita all’Altissimo. Il corpo centrale di questa struttura è HEART, ossia il cuore, sede dell’intelligenza e della volontà, ma anche dell’amore. Il cuore è sostegno dell’Altare e allo stesso tempo convoglia tutte le aspirazioni del perfetto servitore del Signore verso il Sacrificio.
“The Altar.
A broken A L T A R, Lord, thy servant reares,
Made of a heart, and cemented with teares:
Whose parts are as thy hand did frame;
No workmans tool hath touch’d the same.
A H E A R T alone
Is such a stone,
As nothing but
Thy pow’r doth cut.
Wherefore each part
Of my hard heart
Meets in this frame,
To praise thy Name;
That, if I chance to hold my peace,
These stones to praise thee may not cease.
O let thy blessed S A C R I F I C E be mine,
And sanctifie this A L T A R to be thine.”
Tuttavia questa artificiosità alessandrina è superata dall’interesse delle numerose arguzie, e soprattutto dalla sincerità e talvolta dal candore che traspaiono in questo lavoro spiccatamente
secentesco. La vita di George Herbert, passata in un continuo interiore raccoglimento, nel quale non mancarono momenti di lotta, si riflette spesso in queste pagine, dove la penultima poesia giunge addirittura al tragico nella strana originalità dell’eco che risponde alle pressanti domande dell’anima aprendole i segreti della beatitudine celeste. La chiusa si compia nella pace dell’Amore, che invita alla sua mensa l’ingrato e il peccatore. Il Tempio è una notevole testimonianza della ripresa religiosa della Chiesa anglicana sotto l’arcivescovo Laud, finita tragicamente con l’avvento dei puritani.
Il poema, che ebbe una grande fortuna e diffusione, vide ben otto edizioni fino al 1690. Herbert stesso nella lettera accompagnatoria all’opera indirizzata a Nicolas Ferrar, che fu poi l’autore della
prefazione della prima edizione, scrisse queste significative e programmatiche parole che riassumono il senso di questa splendida opera dal fascino quasi esotico: “Ella troverà in esso una immagine dei molti conflitti spirituali che sono passati tra Dio e la mia anima, prima che Io potessi totalmente assoggettare me stesso alla volontà di Gesù, mio Maestro”.
Gaetano Algozino London, South Norwood 25 luglio
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