Fumo di Londra. Piccolo catalogo di vizi e virtù dell’italiano medio all’estero
Missione impossibile potrebbe essere il sottotitolo di Fumo di Londra. Nel 1966 Alberto Sordi decise, lui abituato a seguire i propri film dalla sceneggiatura al montaggio, di provare anche a mettersi, da regista, dietro la cinepresa. Nacque così il film Fumo di Londra.
Il titolo ha un significato triplice. Fumo di Londra è un modello di vestito elegante per uomo, molto più conosciuto tra la media-alta borghesia italiana che a Londra; Fumo di Londra è un’espressione idiomatica che evidenzia una delle caratteristiche più note della città, ossia il suo cielo dal colore grigio fumo; Fumo di Londra infine sta anche ad indicare un vizio innato dell’italiano borghese senza arte né parte che ha fame di fama e che insegue carriera, successo e visibilità all’estero, creando solo fumo.
Nel 1966 si ricordano altresì tre celebri viaggi di italiani in Inghilterra. Due sono cinematografici: Fumo di Londra, appunto, e Blow-up, omaggio di Michelangelo Antonioni alla Swinging London. Il terzo è sportivo ed è diventato proverbiale: il viaggio della Nazionale per partecipare ai Mondiali di calcio, giocati appunto in Inghilterra.
Vittoriosa, nel suo girone, con il Cile e sconfitta dall’Unione Sovietica, l’Italia il 19 luglio disputa una partita decisiva contro la Corea del Nord, considerata una squadra “di ridolini”.
Il clima è ben rappresentato da un tamburino del quotidiano milanese La Notte che, il giorno prima, sostiene: «Non è in discussione il risultato, ma il numero dei gol. Più di cinque?». Finisce 1 a 0, per la Corea (segna l’odontotecnico Pak Doo Ik, al 41° del primo tempo), e la sconfitta diventa un popolare modo di dire.
Il bilancio del cinema italiano è molto più positivo: nel 1966 escono anche L’armata Brancaleone, La battaglia di Algeri, Uccellacci e uccellini. Ma gli eventi che segnano l’anno sono la distribuzione del film di David Lean Il dottor Zivago e la scomparsa, il 15 dicembre, di Walt Disney, il “papà” dei cartoni animati.
Il Film di Alberto Sordi
Per la sua prima regia, comunque, il “novellino” volle giocare sul sicuro, assicurandosi la collaborazione dell’esperto Sergio Amidei (sceneggiatore di Roma città aperta e di Sciuscià) e disegnando un altro dei suoi “italiani medi” che, anche quando venivano accolti con qualche smorfia dai critici (Alberto Moravia giudicò il film “qualunquista”), incontravano il gradimento del pubblico. Per l’occasione, Sordi esordì anche come autore di canzoni, in particolare il leitmotiv del film You Never Told Me, storia di un innamorato che rimpiange di non aver mai sentito dire dalla sua bella “ti voglio bene”. Nel film, oltre a questo motivo, si ascolta anche un’altra canzone, Richmond Bridge, entrambe dalla voce di Lydia McDonald. Tutte e due furono scritte da Alberto Sordi in collaborazione con Piero Piccioni, uno dei migliori musicisti italiani, compositore e direttore d’orchestra, noto anche per essere stato tra i primi autori e divulgatori di jazz in Italia.
L’occasione di partenza di Albertone è l’anglomania degli anni Sessanta. L’Italia del boom e della maggiore disponibilità economica, d’altronde, stava prendendo coscienza del proprio provincialismo. Cresceva la sete di novità, di cultura, di confronto; l’automobile aveva aumentato il piacere di viaggiare, i teen-agers stavano scoprendo una cultura internazionale che li univa, Beatles e Rolling Stones avevano spostato su Londra il baricentro della cultura giovanile, prima che Parigi tornasse, nel maggio 1968, a “fare tendenza”. Ma Dante Fontana, il protagonista, non è più un giovanotto, anzi: potremmo considerarlo la versione adulta di Nando Mericoni innamorato, dieci anni prima, degli Stati Uniti in Un americano a Roma: la citazione degli spaghetti, preferiti al cibo inglese così come Nando preferiva i “maccaroni” alle “schifezze” made in Usa, è del tutto esplicita.
Dante Fontana è un Mericoni cresciuto, quindi, che non interpreta più lo slang dei soldati americani, non mastica più chewing gum, è passato dal sogno dell’America a quello dell’Inghilterra, da mitomane è diventato turista pretenzioso; si è raffinato, insomma, ed è anche più ricco. Ha trovato, d’altra parte, un prestigioso lavoro: fa l’antiquario, in una città di provincia, ma di antico splendore come Perugia. Ma nonostante tutto, in questo “italiano medio” anni Sessanta il ricordo dei tempi bui del dopoguerra resiste ancora: lo si percepisce nella diffidenza, nell’abitudine a guardarsi le spalle, perfino nello stupore con cui Dante accoglie ogni novità, e che si esprime nei continui ringraziamenti per ciò che gli viene offerto. Non per nulla l’edizione inglese del film si intitolò Thank You Very Much: Dante ringrazia proprio tutti, dal doganiere che lo ferma all’arrivo fino ai poliziotti che lo rispediscono in Italia dopo una rissa.
Londra negli anni 60 negli occhi di Dante Fontana, il protagonista
Giunto a Londra, Dante Fontana si dota di ombrello, bombetta, pipa e giornale e si mescola tra la folla: somigliare a un vero inglese è la sua massima aspirazione. Celebri sono le passeggiate a Hyde Park Corner, Buckingham Palace, Trafalgar Square e Piccadilly che mostrano una Londra molto diversa da quella attuale, con i suoi vecchi double-decker rossi e le lussuose Jaguar parcheggiate davanti alle esclusive ville di Kensington e Knightsbridge.
Ma non dimentica il suo lavoro: e a un’asta di oggetti di antiquariato presso la prestigiosa Christie’s in Mayfair, Dante fa un incontro decisivo con un’anziana duchessa, interpretata da una splendida Anny Dalby, che recita “divinamente” la sua parte di aristocratica inglese affascinata dal mondo dell’arte e della cultura italiana.
Sfruttando le sue vere conoscenze d’antiquario e millantando le sue false origini nobiliari, Dante riesce a farsi ospitare dalla duchessa nel suo castello, proprio nei giorni della caccia alla volpe. Ma il “volpone” comincerà presto a dare la caccia a un’altra preda: la bella e anticonformista Elisabeth, nipote della duchessa.
Cacciato dal castello, Dante si immerge nella contro-cultura giovanile. Capelli lunghi, abiti strampalati, birra, ma soprattutto amore libero: manna, per il nostro latin lover. La Londra anni Sessanta, però, è anche quella degli scontri tra bande: coinvolto in una rissa, Dante verrà rispedito in patria.
Il film si conclude quasi in maniera brusca e violenta, lasciando nell’aria, in uno stato di sospensione amara, sentimenti e nostalgie. Un po’ provinciale, appunto, come sottolinea l’altra autocitazione del film: Fontana si lascia credere marchese così come, dieci anni prima, da giovane edicolante si era spacciato per il conte Max.
Ma non siate severi con lui: è esterofilo, sì, ma non è più l’italiano che volava in Svezia per fare il galletto con le nordiche in Il diavolo, di soli tre anni precedente a Fumo di Londra: Dante ha davvero voglia di allargare i propri orizzonti. E in parte ci riesce: alla fine, il suo turismo si rivela una full immersion nella cultura viva del popolo tanto amato, tra la City e i castelli, aristocratici e beatnik, bombette e parrucconi.
Questo sforzo sincero di ambientamento basta, diremmo, a riscattarlo dalla sua ingenuità. Le due parti in cui si suddivide il film corrispondono sia alle due facce problematiche di Londra (la “swinging London” della musica beat e della cultura hippy che convive con le tradizioni più radicate dell’aristocrazia) che ai due atteggiamenti opposti di Dante, il quale subisce il fascino della City aristocratica e della caccia alla volpe ma risponde anche al richiamo della contestazione giovanile. Egli passa, per così dire, dall’ingessato cerimoniale aristocratico alla libertà senza limiti dei “figli dei fiori”, vive inebrianti avventure ma si deve poi arrendere: per lui, la gioventù è già passata, e con essa si dilegua anche il sogno impossibile di vivere a Londra come un perfetto e impeccabile Lord inglese dall’inguaribile, vizioso e “imperfetto” cuore italiano.
Tra i pochi che dedicarono al film un’attenzione più acuta vi fu il noto critico del cinema Tullio Kezich che in una recensione su Sipario vide subito oltre l’apparente gracilità della vicenda di Dante Fontana. «Da un momento all’altro il nostro italiano – scrive Kezich – passa dal mondo del decoro a quello della rabbia, dall’establishment ai circoli giovanili dove dominano le zazzere, le chitarre elettriche e il libero amore. Quest’altra Inghilterra ha per protagonista il fascino della gioventù: incredulo, commosso, liberato provvisoriamente da tanti complessi Dante si accorge presto che è troppo vecchio, saggio o impaurito per tenere il passo con la gioventù».
In realtà Sordi si sta rivelando lungimirante: sta già, sia pure confusamente, capendo che molti di quei giovani ribelli, qualche anno dopo, faranno il deserto e lo chiameranno sogno.
Gaetano Algozino London-South Norwood, 30 aprile 2016
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