Letteratura inglese

Edmund Spenser e la regina delle fate

Edmund Spenser (1552-1599), e la sua opera più famosa, La Regina delle Fate

Incastonata come una perla preziosa nel cuore della età elisabettiana (quel turbolento e decisivo periodo di transizione che va dal primo rinascimento alla Restoration) è la singolare figura di Edmund Spenser, poeta e cortigiano, il quale a buon titolo può essere definito l’Ariosto della letteratura inglese. William Camden (1551-1623), il vulcanico e onnisciente storico e topografo, autore della prima descrizione corografica delle isole di Britannia e Irlanda, è stato l’unico suo contemporaneo che ci ha lasciati dello Spencer un breve e commosso profilo biografico. All’interno della sua monumentale e minuziosa Storia di Inghilterra sotto il Regno di Elisabetta I, Camden riesce a creare una profonda e riconoscente commemorazione del poeta, tutta trasudante di sincero entusiasmo e di pietas cristiana. Egli scrive:
Edmund Spenser nacque a Londra (1552) e studiò a Cambridge… Egli ebbe un genio così felice per la poesia che superò tutti gli altri poeti prima di lui, compreso il suo istesso compagno londinese, il Chaucer; ma legato da un comune destino a quella “fraternità” letteraria, egli fu sempre povero, sebbene fosse stato a suo tempo Segretario del Lord Grey, deputato di Irlanda. Egli disponeva di una magra pensione che gli permetteva di attendere ai suoi amati studi, in uno spazio alquanto ristretto di tempo libero. Pur tuttavia i ribelli irlandesi finirono col saccheggiare la sua casa e col cacciarlo via definitivamente, sicché egli si vide costretto a far ritorno in Inghilterra in misere condizioni. Ivi morì non molto dopo, e fu sepolto nell’Abbazia di Westminster non lontano da Chaucer, a spese del Conte dell’Essex. Il suo carro funebre fu accompagnato dai gentiluomini del suo rango, i quali gettarono nella sua tomba alcune elegie funebri, e le penne con le quali furono scritte.

La figura dello sfortunato e squattrinato poeta è stata oggetto nel corso dei secoli di una serie di simpatiche riflessioni aneddotiche, dal vago sapore sarcastico profondamente british, che hanno messo in luce sia le sue doti umane e poetiche sia il suo destino di letterato clochard, per certi versi antesignano di una innumerevole schiera di “colleghi” accomunati dallo stesso destino di estrema penuria materiale e di elevata attitudine ai valori dello spirito. Ne vogliamo ricordare uno in particolare, che è riportato da James Sutherland nel suo celebre e gustoso The Oxford Book of literary anecdotes (1975). Esso può anche servirci da ideale portico introduttivo alla sua opera principale, la Regina delle Fate, pubblicata al tramonto del XVI secolo.

E’ stato più volte riferito sul suo conto che mentre egli stava facendo dono di alcuni suoi poemi alla Regina ed Ella aveva ordinato di corrispondergli una mancia di cento pound, il Lord Tesoriere Burleigh opponendosi a ciò, disse con disprezzo del poeta, del cui valore egli era totalmente ignaro, “Che cosa, tutto questo denaro per un canto?”. La Regina replicò “Mostragli dunque una ragione valida!”. Spenser attese per un po’ di tempo, di poi provò la mortificazione di ritrovarsi deluso a cagione della estrema generosità della Regina. Alla luce di ciò egli colse una occasione propizia per presentare alla Regina un suo saggio, nel quale egli la ricordò per il nobile gesto che Ella aveva ordinato di compiere in suo favore. Questi sono i versi (la cui traduzione italiana impoverisce non poco il senso della rima baciata inglese):

“I was promised on a timeJohn Singleton Copley – Study for ‘The Red Cross Knight’ – Google Art Project
To have reason for my rhime.
From that time, unto this season,
I received nor rhime, nor reason“.
Mi fu promesso un tempo
Di fornire una ragione valida per il mio poetare.
Da allora e insino a questa stagione
Io non ricevetti ne rima, ne ragione.

Il saggio produsse l’effetto desiderato, e la Regina, dopo aver biasimato acutamente il Lord Tesoriere, corrispose al poeta la somma di cento pounds, che Ella stessa aveva precedentemente ordinato.

La collezione dei suoi sonetti petrarcheschi Amoretti (1595) e The Shepheards Calendar (1597), di chiara ispirazione pastorale, risentono del profondo influsso della letteratura italiana del tardo medioevo e del primo rinascimento. Si può affermare senza alcun’ombra di smentita che non vi è periodo, corrente o autore della letteratura inglese che non abbia tratto dal modello “immortale ed eterno” delle italiche lettere motivo ispiratore per ogni sua propria espressione, rimodulata e riletta in chiave nordica e filtrata attraverso l’humus e la sensibilità tipicamente british. La relazione non è quella del calco al prodotto finito, bensì quella della tela come supporto “materico” all’opera d’arte in se stessa.

La humanae litterae della civiltà italica, figlie dirette della latinitas romana, non hanno mai smesso di rappresentare l’ossatura, il backstage e il proscenio ideale di quell’intima e segreta tessitura della letteratura inglese. Ma è giunta l’ora di volgere la nostra attenzione all’opera principale dello Spenser che è, come si è detto sopra, The Faerie Queene, La Regina delle Fate, poema incompleto in stanze di sei libri iniziato nel 1580, i cui primi tre libri apparvero nel 1591. L’opera doveva consistere di dodici libri (ciascuno diviso in dodici canti), ma il poeta non ne lasciò che sei e alcuni frammenti; gli ultimi tre libri The Faerie Queene frontispiecefurono pubblicati nel 1596. La struttura metrica è quella della ottava con l’aggiunta di un nono verso di dodici sillabe, schema a b a b b c b c c, metro inventato dallo Spenser e adoperato dipoi da James Thomson, dal Keats, dallo Shelley e dal Byron.

Lo Spenser si ispira all’Ariosto (le fonti ariostesche furono rilevate fin dal Settecento da Thomas Warton, 1782-90) e al Tasso (per esempio il giardino incantato descritto nel canto 12 del libro II è tolto dal canto 16 della Gerusalemme liberata), ma è più ancora vicino, per spirito, agli umanisti inventori di emblemi e di imprese, tali sono le intenzioni allegoriche del poema. Nella celebre lettera introduttiva, indirizzata a Sir Walter Raleigh, il poeta dice che per rendere più interessante la sua opera l’ha colorata di una “finzione storica”, cioè la storia del Principe Artù (Arthur), nel quale si trovano unite tutte le virtu’ che un grande uomo deve possedere. La Regina delle fate rappresenta la Gloria in astratto, e in particolare l’ “eccellentissima e gloriosissima persona nella nostra sovrana la Regina”. Elisabetta è anche adombrata nel poema sotto i nomi di Belphoebe, Mercilla e Gloriana.

La Regina tiene corte bandita per dodici giorni, ciascuno dei quali offre a un cavaliere di distinguersi: ciascun cavaliere personifica una virtù. Il primo libro, preceduto da una dedica alla Regina Elisabetta, in cui il poeta dichiara di aver mutato in tromba la zampogna pastorale, contiene le avventure del Cavaliere della Croce Rossa (the Red Cross Knight), modellato su San Giorgio, che dovrebbe impersonare la Santità (la Chiesa anglicana). Egli viene alla Corte di Gloriana e udendo che un orribile drago funesta le terre governate dai genitori della vergine Una (la verità o la vera religione), si reca con costei e col fedele scudiero a uccidere il mostro. Nella Caverna degli Errori trovano un drago che a ogni momento dà alla luce orrendi figli (allegoria delle aberrazioni). Il Cavaliere abbaglia il mostro con lo scudo incantato, e poi lo decapita: i figli, bevendo il suo velenoso sangue, muoiono. Dipoi il Cavaliere e Una incontrano un vecchio di venerabile aspetto, simile all’eremita che l’Angelica ariostesca incontra dopo la fuga; egli è l’Archimago (l’ipocrisia), che ha la lussuria di quell’eremita e il magico potere di Atlante; a questo punto la trama acquista una complessità ariostesca.

Il Cavaliere, fuggendo alle tentazioni di Archimago, incontra Sanstoy, un cavaliere saraceno, accompagnato dalla bella Duessa (la Chiesa cattolica), reincarnazione dell’Alcina dell’Ariosto; seguono varie avventure in foreste incantate e palazzi allegorici; Una libera il cavaliere caduto nei lacci di Duessa, il cui deforme aspetto viene smascherato; il cavaliere è condotto presso Madonna Umiltà (circondata da Fidelia e Speranza) e assistito da Obbedienza, Penitenza e Rimorso, nonché dal santo eremita Contemplazione. Così purgatosi lo spirito, affronta il tremendo drago contro il quale aveva intrapreso la spedizione, e lo uccide; dopo altre peripezie il cavaliere sposa Una. Questo rapido sommario dell’argomento del libro primo basterà a dare un’idea della costruzione del poema.
Il secondo libro contiene le avventure di Sir Guyon, il cavaliere della Temperanza, i suoi combattimenti con Pirocle (Pyrocles: il furore) e Cimocle (Chymocles), la sua visita alla caverna di Mammone e alla Casa della Temperanza, e la sua distruzione di Acrasia (l’Intemperanza) e del suo Verziere di Delizie (Bower of Bliss); il canto decimo contiene una cronaca dei re britanni da Bruto a Uther, e dal Re degli Elfi a Gloriana (Elisabetta); il quarto, l’episodio di Faone e Cristabella, imitato da quello di Ariodante e Ginevra dell’Orlando furioso (canto VII).

Il terzo libro narra la leggenda della Castità, simboleggiata da Britomarte (Britomart, la regia donzella che si innamora di Arthegall le cui sembianze ha visto in uno specchio magico) e da Belfebe (Belphoebe). Il quarto libro narra la leggenda di Triamondo (Triamond) e Cambello (Cambell). Il primo è il cavaliere dell’Amicizia e combatte col secondo per decidere quale dei pretendenti di Canace dovrà averla; la pugna resta indecisa e i due John Melhuish Strudwick00giurano eterna amicizia; alla fine Triamondo sposa Canace. Nello stesso libro è la leggenda di Scudamore (Scudamour) e Amoretta (Amoret), la quale, subito dopo il matrimonio con Scudamore, è rapita dall’incantatore Busirane e da lui imprigionata finche’ non la libera Britomarte.

Il quinto libro contiene le avventure di Arthegal, il cavaliere della Giustizia, e varie allusioni ad avvenimenti storici del Regno di Elisabetta, tra cui la disfatta degli Spagnoli nei Paesi Bassi, l’esecuzione di Maria Stuarda, ecc. Il sesto libro contiene le avventure di Sir Calidore, che esemplifica la Cortesia. Il frammento riguarda l’allegoria della Mutevolezza (Mutability), sesto e settimo canto della Leggenda della Costanza, che doveva formare il settimo libro.
La Regina delle fate di Edmund Spenser ridonda di magnifiche descrizioni e parate allegoriche, e per il genere di poesia sconnessa e vagamente evocatrice che ne emana, e per la musica delle stanze che, con l’alessandrino finale, sembrano imitar l’onda che si frange e cullano l’orecchio con piacevole monotonia, il poema dello Spenser ha sempre attirato gli spiriti dei sognatori, quali James Thomson e John Keats, e ha valso all’autore il nome di poets’ poet, ossia poeta dei poeti, il poeta per eccellenza.

Gaetano Algozino London, South Norwood 7 maggio 2015

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