CHARLES DICKENS, il Babbo Natale della letteratura inglese
“Mi domando se abbiate mai letto i “Racconti di Natale” di Dickens?
Sono forse eccessivi. Io ne ho letti due soli per ora; ma ho pianto a dirotto e ho fatto fatica a non singhiozzare.
Ma, santo Cielo, sono così buoni, e io mi sento così buono dopo averli letti; farò del bene senza perder tempo – voglio andar fuori e consolare qualcuno – darò del denaro.
Che bella cosa è per un uomo avere dei libri simili, e riempito di pietà i cuori della gente.”
Così annotava un entusiasta e prestigioso lettore dei dickensiani Racconti di Natale, qual fu Robert Louis Stevenson. Parole cariche di pathos etico che gettano una luce quasi “divina” su colui che è stato ritenuto unanimemente il Babbo Natale della .
A tal proposito, una breve nota introduttiva ai Racconti di Natale della elegantissima edizione londinese del 1930 pubblicata da Hazell, Watson & Liney, si esprime così: «Nei suoi Racconti di Natale, Dickens tiene acceso il ceppo natalizio, ci porta il piacevole aroma del preparato di punch, e fa riecheggiare il frinire del grillo e l’allegria intorno al focolare».
I Racconti di Natale appartengono all’inizio dell’attività letteraria di Dickens.
A rigore, sarebbe più esatto chiamarli Storie di Natale o Libri di Natale, come sono conosciuti nel loro paese d’origine: Christmas Stories o Christmas Books. Non solo perché uscirono separatamente, ciascuno di essi come un libricino a sé stante – i primi quattro nei Natali del 1843, 1844, 1845, 1846; l’ultimo con un anno d’intervallo, nel 1848 –, ma anche per distinguerli dai successivi racconti natalizi, che, ridimensionati in forma di novellette, si susseguirono ininterrottamente dal 1850 al 1867 sulla rivista fondata e diretta da Dickens, Household Words, tanto che la loro comparsa, a ogni dicembre, divenne quasi un aspetto obbligatorio del folclore stagionale.
Di questa produzione natalizia, gli archetipi risalgono al noviziato dello scrittore.
Tra i suoi primi bozzetti figura infatti un raccontino del 1835, intitolato Un pranzo di Natale e orchestrato sul tema della riconciliazione: una rigida matrona riammette al focolare domestico la figlia, rea d’essersi ostinata a sposare un giovane povero: un peccato imperdonabile nella borghesia mercantile ottocentesca.
Un anno dopo, nel 1836, all’epoca dell’esplosione delle “cronache” del Circolo Pickwick, il tema natalizio si riaffaccia nella visita dei soci buontemponi al vecchio Wardle, a Dingley Dell: uno dei momenti più felici dell’intera saga, anche per l’efficacia dei tocchi che evocano la campagna inglese, avvolta nel torpore dell’inverno.
Socievolezza e allegria generale sono le note dominanti: nella storia natalizia narrata dal vecchio Wardle i folletti puniscono chi si apparta dalla gioia degli altri e anzi la schernisce, come l’ispido sagrestano Gabriel Grub, che colpisce col bastone un cantore di Carols, l’equivalente inglese delle nostre pastorali natalizie.
Ma i Racconti di Natale propriamente detti hanno una ricchezza di significati che sorpassa la generica allegria dell’episodio pickwickiano. È quanto Dickens stesso puntualizza, nella prefazione del settembre 1852 per l’edizione popolare delle cinque storie riunite: «Io non ho cercato un’eccessiva minuzia di dettagli nel tratteggiare i personaggi. Il mio intento fu, in questo tipo di fantasiosa pantomima (a whimsical kind of masque) che il buonumore della stagione giustificava, di risvegliare pensieri d’amore e di tolleranza, mai fuori luogo in un paese cristiano. Ho la gioia di credere di non avere del tutto mancato il mio scopo».
E in verità, se un “paese cristiano” ebbe mai un disperato bisogno delle sue virtù, fu proprio quello in cui il giovane Dickens muoveva i passi decisivi sulla via della gloria.
In questo senso i Racconti di Natale – e soprattutto tre di essi, in cui è leggibile un messaggio sociale, ancorché travestito nei modi della “fantasiosa pantomima”, – si possono dire un prodotto abbastanza tipico degli Hungry Forties, i “famelici anni Quaranta” del secolo XIX, nei duri inizi della rivoluzione industriale, quando la miseria spopolava le campagne del Regno Unito e nelle città spingeva bambini di sei anni al lavoro nelle fabbriche, bambine di dodici sul marciapiede, e schiere sempre più folte di diseredati verso le navi in partenza per l’America.
Davanti alla vastità di simili mali, il ricorso a una novella può sembrare inadeguato. Eppure, come acutamente fece notare André Maurois, la loro rappresentazione in una cornice di fantasia era il modo più immediato di far presa sul grosso pubblico.
Lo stesso Dickens, prima di metter mano alla Ballata di Natale, (A Christmas Carol) il primo e più celebre dei cinque racconti, aveva dibattuto l’idea di una denuncia sociale, sotto forma di «un libello, da vendersi a prezzo molto basso», intitolato Appello al popolo d’Inghilterra in difesa dei bambini della povera gente. Era il momento in cui il rapporto della commissione parlamentare d’inchiesta sul lavoro minorile sconvolgeva il paese e ispirava ad Elizabeth Barrett il famoso poemetto Il pianto dei bambini. Poi Dickens intuì che una storia di Natale, capace di presentare ai lettori le sofferenze dei poveri, sarebbe stata mille volte più efficace di qualsiasi denuncia.
Dickens stava lavorando in quell’epoca al suo sesto romanzo, Martin Chuzzlewit e per scrivere la Ballata di Natale
(A Christmas Carol) dovette rubare tempo al riposo.
In una lettera a un amico americano, si descrive in preda alla febbre dell’ispirazione, che gli fa percorrere di notte, secondo una sua caratteristica abitudine, le oscure vie di Londra, «quando tutte le persone serie sono a letto».
A Christmas Carol, Canto di Natale
Nacque così la storia del vecchio avaro, Scrooge, dal cuore inaridito, che la sera della vigilia, sollecitato da due filantropi a dare un’offerta per il Natale dei poveri, ribatte che già contribuisce a mantenere in funzione le prigioni e le Workhouses, una via di mezzo fra l’ospizio di mendicità e i lavori forzati. E all’obiezione che molti indigenti, di fronte a simili alternative, «preferirebbero morire», replica gelidamente che così almeno si ridurrà «l’eccedenza della popolazione». È un preciso riferimento all’agghiacciante rapporto di Malthus, diffuso fin dagli inizi del secolo.
Nella notte, però, appaiono a Scrooge tre spiriti: quello del Natale passato, con le sue care memorie e il senso delle gioie non sapute cogliere; del Natale presente, con la visione della casa del suo umile commesso, Bob Cratchit, povera, ma calda d’affetti e animata dalla presenza dei bambini, fra cui la patetica figuretta di Tiny Tim, sul quale pesa una minaccia di morte precoce; e infine del Natale futuro, che anticipa la squallida fine di Scrooge e il dolore dei Cratchit, privati del piccino che non hanno saputo salvare.
Ed è proprio la tenerezza ispirata da Tiny Tim a sovvertire le teorie malthusiane sull’eccedenza della popolazione: «Sei tu, – grida lo spirito a Scrooge – che deciderai quali uomini devono vivere e quali morire? Può darsi che al cospetto del Cielo tu sia inutile e meno adatto a vivere di milioni di creature come questo bambino di povera gente».
Il sordido vecchio si converte, diventa affabile e generoso e, per completare il clima di fiaba, si apprende che anche Tiny Tim non dovrà più morire.
Il racconto giungeva in un momento psicologicamente giusto. Ebbe un successo travolgente, «il più vasto che io abbia mai raggiunto», scrisse lo stesso Dickens. Pubblico e critici gareggiavano nelle lodi e ci furono recensori che, trascinati dall’entusiasmo, paragonarono l’autore addirittura a Dante.
Con il suo messaggio di solidarietà umana, il libriccino si inseriva in quel diffuso rilancio dello “spirito di Natale” che fu un tipico aspetto dell’Inghilterra vittoriana.
Le campane (The Chimes)
Il secondo dei racconti, Le campane (The Chimes), fu scritto l’anno seguente, durante un soggiorno della famiglia Dickens a Genova, ed è curiosamente legato a un ricordo locale: quello dello scampanio delle chiese cittadine, che dapprima infastidiva lo scrittore e poi gli suggerì lo spunto che cercava per la sua storia natalizia, e persino il titolo. In realtà, si tratta di una storia di Capodanno: le campane annunciano il passaggio dal vecchio anno al nuovo.
Ed è l’unico dei racconti in cui l’appello in favore dei diseredati assume i toni sferzanti della satira.
Vi si avverte l’influsso del giornalista radicale Douglas Jerrolds, assiduo frequentatore della cerchia dickensiana.
La satira è graffiante, ma anche abbastanza ingenua: tutti i personaggi appartenenti ai ceti privilegiati, come l’assessore Cute, il baronetto sir Joseph Bowley, membro del Parlamento, la moglie di lui, e così via, sono esseri ipocriti e tronfi, che si appagano di vuote parole; mentre la bontà, la devozione, l’abnegazione risultano doti esclusive del proletariato.
La trama è tenue, poco più che un pretesto: le campane a cui il titolo allude sono quelle di una vecchia chiesa di Londra, nel cui rintocco il buon Toby Veck, detto Trotty, messaggero e fattorino del quartiere, ode esortazioni e incoraggiamenti.
La notte di Capodanno, quando il poveretto, messo in crisi dalla truculenza dei ricchi (anche nelle sue speranze per la figlia Meg, promessa sposa al fabbro Richard), ascende alla cella campanaria in cerca di conforto, gli spiriti del luogo gli mostrano inquietanti visioni del futuro, in cui sono in agguato i tradizionali flagelli dell’età vittoriana: il lavoro improbo, l’ubriachezza, la prostituzione, l’infanticidio.
Ma il dileguarsi dell’incubo reca a Trotty la consolante certezza che «la marea del tempo» s’alzerà un giorno e «tutti quelli che ci fanno torto o ci opprimono saranno spazzati via come foglie». Il racconto si chiude su note gioiose, mentre i giovani si avviano alle nozze. L’accoglienza che il racconto ebbe fu ricca di contrasti, com’era prevedibile; e anche le recensioni furono influenzate dagli schieramenti politici: entusiastiche le une, aspramente denigratorie le altre. Tanto che l’anno seguente Dickens, sempre sensibile agli umori del suo pubblico (e conscio di essersene alienato un settore), invertiva bruscamente la rotta, rifugiandosi nel privato e tornando ai temi della pace domestica e della giocondità stagionale.
Il grillo nel focolare (The Cricket in the Hearth)
Il grillo nel focolare (The Cricket in the Hearth), scritto durante un soggiorno in Svizzera (sono gli anni dei pellegrinaggi della famiglia Dickens sul continente), è tipicamente un divertissement natalizio, sebbene non vi si faccia un diretto riferimento al Natale: la cornice è solo genericamente invernale.
Fra i cinque racconti, è quello che ebbe il maggior numero di riduzioni teatrali e che ancor oggi ritorna con frequenza sulle scene. Il grillo è il simbolo del calore familiare, regnante in due umili case: quella del corriere Peerybingle, felice con la giovane moglie Dot e il suo piccino, e quella di Caleb, commesso in un negozio di balocchi, che dedica ogni sua cura alla figlia cieca, Bertha.
La pace delle due famigliole appare a un certo punto turbata da due fatti: le imminenti nozze del titolare della fabbrica di giocattoli, il maturo Tackleton, con una coetanea delle due ragazze, May, e la presenza in casa dei Peerybingle d’uno strano personaggio, che si finge vecchio e sordo ma che sembra avere una segreta intesa con Dot. Poi tutto si chiarisce: misterioso è Edward, il figlio di Caleb e fratello di Bertha, da lungo tempo scomparso in America in cerca di fortuna. Ora è tornato, appena in tempo a sottrarre la sua fidanzata d’un tempo, May, allo sciocco matrimonio d’interesse e a condurla lui stesso all’altare.
Anche Tackleton si convince e si ritira con buona grazia e il finale non potrebbe essere più festoso.
Il tema dell’evasione persiste anche nel quarto libro di Natale (il meno riuscito letterariamente) che anzi, quasi a sottolineare il disimpegno dai temi pressanti dell’attualità, Dickens colloca in un altro secolo: nel Settecento di una Merry England (“felice Inghilterra) preindustriale.
La storia è tenera e abbastanza assurda: due sorelle vivono con il padre, medico di campagna.
La minore, la bellissima Marion, è fidanzata con Alfred, di cui anche la sorella, Grace, è silenziosamente innamorata. Quando la sposa scompare alla vigilia delle nozze, oscure voci corrono sulla sua sorte.
Poi Alfred si consola sposando la fedele Grace.
Marion riapparirà solo sei anni dopo, rivelando d’aver voluto ritirarsi perché la sorella potesse realizzare il suo sogno. Quanto a lei, sposerà più tardi Michael Warden, il solito forestiero venuto da lontano, il cui nome era già stato associato al suo all’epoca della fuga.
La battaglia della vita (The Battle of Life – A Love Story) – un titolo improprio e solo vagamente collegato al fatto che la dimora campestre delle due sorelle sorge nei pressi di un antico campo di battaglia – lasciò comprensibilmente freddo il pubblico e per un anno Dickens si ritirò dall’agone natalizio.
Quando vi fece ritorno, nel 1848, fu con una storia abbastanza reminiscente dei primi due libri di Natale, con i quali ha in comune la presenza di un elemento soprannaturale ed anche il passaggio del protagonista, grazie ad esso, da uno stato di spirito abbattuto e misantropico a una nuova mentalità, gioiosa e disponibile: The Haunted Man and the Ghost’s Bargain (L’uomo perseguitato e l’affare del fantasma).
Si tratta di Redlaw, un professore di chimica, giunta alla sua onorata posizione dopo molti dolori e duri sacrifici.
È perseguitato da un fantasma che ha le sue stesse sembianze e rappresenta il suo passato.
Lo spettro gli offre la libertà, a patto che Redlaw rinunci a tutte le sue memorie e accetti il dono di diffondere anche fra i suoi simili il medesimo oblio.
Non passa molto tempo che Redlaw si rende conto della qualità distruttiva del patto da lui accettato, privandosi del potere catartico delle memorie, anche le più penose. Attorno a lui, al suo contatto, altri cuori si inaridiscono come il suo: al posto del benessere promesso, sorgono ribellioni, rancori, ingratitudini.
Presto Redlaw si trova allo stesso livello morale del selvaggio monello raccolto dalla strada (una delle più forti creazioni di Dickens) che non ha memorie, essendo stato abbandonato fin dalla nascita, senza altro istinto che quello d’una sopravvivenza animale.
La salvezza viene dall’esempio di un’umile e caritatevole donna, che dalle sue proprie memorie dolorose – la perdita del suo bambino –sa trarre, anziché amarezza, sentimenti di compassione e di solidarietà verso i suoi simili.
Il tristo incanto così si rompe e Redlaw è reso a una nuova vita, più umana e calda di affetti: una conversione profonda in cui si riassume l’autentico “spirito del Natale”.
In Italia i Racconti di Natale furono la prima tra le opere dickensiane ad essere diffusa e tradotta: uscirono infatti nel 1852, lo stesso anno della cosiddetta Cheap Edition.
Un altro grande scrittore inglese, il William Thackeray autore de La Fiera della Vanità, scrisse che «La Ballata di Natale par essere un beneficio per l’intera nazione, e, per ogni uomo o donna che lo legga, un atto di personale intelligenza».
I Christmas Books conquistarono completamente il pubblico inglese, e non solo, perché ne esprimevano al meglio gusti e tendenze. Anche il senso riformista di Dickens, il suo senso di responsabilità per la sorte degli umili, la sua benevolenza, lo stesso “spirito del Natale” possono sembrarci oggi, distaccati dall’ambiente, aspetti molto più originali e tipici che non lo fossero nell’ambito del loro tempo.
La sua originalità non consisté neanche nel servirsi del romanzo per la propaganda, perché anche qui non fu il solo, ma bensì nel dare nelle sue opere tanto di più della mera propaganda, che la loro sopravvivenza non è per nulla condizionata a questa.
Gaetano Algozino Leonforte, Sicilia, 23/12/2020
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